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Moralia Blog

#NoiRestiamoaCasa

Il 9 marzo è stato pubblicato il decreto del presidente del Consiglio, noto con il titolo significativo «#IoRestoaCasa», che ha protratto il limite temporale della chiusura di scuole, università e altri esercizi fino al 3 aprile, obbligando tutti ad assumere comportamenti al di fuori della normalità a cui siamo abituati.

A esso ha fatto seguito il decreto dell’11 marzo, che oltre a limitare ulteriormente gli spostamenti per fondate ragioni di salute pubblica, ha sospeso gran parte di attività ed esercizi, consentendo l’operatività dei servizi essenziali e delle imprese produttive con i necessari accorgimenti.

#Io (mamma) resto a casa

Questa è la cornice nella quale tutti ci muoviamo in questi giorni e che andrà avanti almeno fino a dopo Pasqua. Ma nel quadro si trova un particolare rilevante, che già emergeva in modo sarcastico con un «meme», un’immagine virale che ha girato sui social network soprattutto il 4 e il 5 marzo, quando ancora la situazione non aveva i toni in parte drammatici che possiede oggi. Questo meme conteneva solo un testo che recitava: «ANSA: dopo conferma chiusura scuole, le mamme colte da arresto cardiaco salgono a 457. Era meglio il virus».

Sicuramente l’intento era quello di far sorridere, ma come spesso avviene scherzando si dice la verità. Che in questo caso sembra di un’evidenza che lascia quasi interdetti: se i ragazzi e le ragazze sotto i 12 anni sono costretti a non andare a scuola per cause di forza maggiore e addirittura per un tempo non facilmente prevedibile, il problema grave e pressoché insolubile è di quelle mamme, che anziché stare a casa, hanno avuto la malaugurata idea di lavorare.

I padri non sono affatto coinvolti in questa dinamica: se le loro aziende avessero richiesto la loro presenza anche durante l’epidemia, non avrebbero certo potuto accampare la «scusa della famiglia», né probabilmente in molti avranno pensato che dovesse essere anche affare loro, spesso nella convinzione radicatissima che siano le madri a doversi porre il problema dei figli e delle figlie, quando esso diventa ingombrante e un vero ostacolo alla possibilità di andare al lavoro.

Lavoro femminile, solo per bisogno?

Tutto questo mette il dito in una ferita che nel tessuto sociale e culturale italiano c’è e oggi più che mai è visibile: le donne lavoratrici si ritagliano una fetta di autonomia che in realtà non potrebbe competere loro nel momento in cui diventano madri. Unica deroga a questa posizione pregiudizievole è la necessità economica: se la famiglia cioè ha bisogno (come ormai spesso accade) di due stipendi per andare avanti, allora l’impegno lavorativo della donna può effettivamente essere sopportato. Ma nel caso in cui la donna lavorasse anche per realizzare se stessa, per completare la propria vocazione di persona umana, per sostenere la sua trascendente dignità con l’impegno nobilitante della professione, in definitiva, perché le piace, allora sarebbe troppo e discutibile.

Questa posizione richiama l’errore morale dell’aut aut: o lavorare, o essere madre, perché non si può avere tutto. In particolare le donne; perché per gli uomini questo aut aut non è mai nemmeno posto in essere. Gli uomini sono ugualmente padri e lavoratori senza che alcuno, giustamente, lo metta in dubbio.

Fare alleanza: armonia di una vita complessa

Credo sia giunto il momento che per una vera parità fra uomini e donne si riparta dalla comprensione che fare famiglia è una scelta nobile tanto quanto quella di seguire le proprie inclinazioni in una professione, e che l’una non può e non deve escludere l’altra, ma è possibile portare avanti insieme, uomini e donne, in modo armonico, la difficile composizione di una vita complessa, perché i nostri i figli e le nostre figlie imparino che l’alleanza fra i sessi è la migliore strategia possibile per essere concretamente felici lì dove si è scelto di essere.

 

Emilia Palladino, fisica e dottoressa in scienze sociali e dottrina sociale della Chiesa, è docente dell’area etico-sociale presso la Pontificia università gregoriana.

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