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Moralia Blog

Parole etiche: conversione, germe di speranza

Tra le grandi parole di cui vive il linguaggio morale, il termine conversione è certo tra i più centrali, ma anche tra i più complessi, nella stratificazione di significati che lo caratterizza. Nel linguaggio corrente esso viene spesso identificato col passaggio da una religione a un’altra, ma è una visione parziale, che non rende ragione a un termine assai più ricco. Ne troviamo traccia piuttosto nel termine riconversione, spesso usato per indicare il riorientamento di un sistema o di un’unità produttiva a uno scopo più adeguato (da una produzione superata a una più promettente, da una ambientalmente insostenibile a una “pulita”, da una militare a una di pace…).

Un immaginario articolato

Vale la pena di ricordare che la nozione di conversione si radica in un ricco background biblico: alle sue spalle c’è l’ebraico teshuva, col suo retroterra semantico concretissimo. È la svolta, il cambiamento di direzione, il ritornare (shuv): anche l’ebraismo contemporaneo parla di fare teshuva per dire ritornare al Signore, ritrovare un orientamento della vita secondo giustizia.

D’altra parte, il greco del Nuovo Testamento evoca un plesso di significati in qualche modo analogo con un termine abbastanza diverso. Metanoia dice, infatti, piuttosto di un rinnovamento della mente (nous) e del modo di pensare, teso a comprendere quali pratiche meglio corrispondano all’agire salvifico di Dio.

I due termini non sono evidentemente sovrapponibili, ma non sembra si esprima qui una contrapposizione tra modi diversi di vedere l’uomo e il suo percorso di vita. Quello che emerge è piuttosto una convergenza: la figura di una novità, che investe la vita e la storia del soggetto, trasformandole nella loro diverse dimensioni. C’è qui dunque una comprensione profondamente dinamica dell’esistenza, che vede l’identità personale emergere progressivamente, in un cammino che intreccia la linearità dello sviluppo con l’attraversamento di punti di svolta, di cambiamento anche radicale.

Novità e ripresa

La conversione non è però – nonostante la prossimità terminologica – neppure una sovversione, che tutto smantellerebbe e decostruirebbe. Piuttosto una ripresa, che raccoglie e porta a un livello più alto (o più profondo) la nostra comprensione dell’esistenza.

È l’aprirsi di possibilità inedite, che magari già abitavano il soggetto, ma che solo l’incontro con l’uno o l’altro evento rende improvvisamente presenti; è la scoperta di vie nascoste o insospettate nelle loro potenzialità di vita buona e di relazionalità feconda. Viene alla mente lo stupore gioioso suscitato dal pranzo preparato da Babette nel noto racconto di Karen Blixen, la novità che esso innesta in esistenze che sembravano ormai stabili e magari un po’ sclerotizzate.

Non è casuale, insomma, che la riflessione contemporanea associ la conversione alla speranza, nel dispiegamento di orizzonti carichi di futuro, che il soggetto è invitato a esplorare. Non è casuale, d’altra parte, che un’etica teologica vi legga l’opera di quello Spirito che celebriamo in questi giorni di Pentecoste: è la presenza divina entro la storia e la vita di uomini e donne il vero motore segreto della novità; è Lui che suscita e sostiene ogni nuovo inizio.

Commenti

  • 05/06/2015 marra.b@gesuiti.it
    Ripiegamenti e dinamiche deterministiche sono le prime espressioni che mi vengono alla mente nel leggere il POST: «Parole etiche: conversione, germe di speranza». Il valore di un essere umano dipende dalla sua capacità di creare relazione, di dedicarsi, di uscire da sé, di aprirsi, di abbracciare e di amare. Seguendo tale logica si attua la liberazione dell’ego, la méta di ogni autentica esperienza spirituale. La conversione che apre alla speranza è quindi l’antidoto al ripiegamento dell’animo su sé stesso ed è il superamento delle dinamiche rigorosamente deterministiche degli atomi democritei verso la libertà di scelta: «la verità vi farà liberi» (Gv 8,32). Bruno Marra

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