m
Moralia Blog

Perdono e pentimento: tre paradossi

C’è uno scrittore che amo molto: Eric-Emmanuel Schmitt. Quasi due anni fa è stata pubblicata in italiano una sua raccolta di quattro racconti lunghi, dal titolo La vendetta del perdono (E/0, Roma 2018). Sembra quasi un ossimoro: eppure, attraverso quattro incalzanti narrazioni, Schmitt inverte le parti. L’atto di perdono, di bontà, di riconciliazione e – in qualche modo – di conversione, in particolare della vittima, si rivela essere al contrario un preciso e sottile piano sadico e di vendetta (appunto!) verso il colpevole.

Non voglio anticipare («spoilerare» direbbero i più giovani) nulla ai lettori di «Moralia» del libro in questione e della trama dei quattro racconti. Vorrei piuttosto soffermarmi – in questo breve spazio – su tre paradossi del perdono e del pentimento.

In realtà il «perdono» (così come il «pentimento») è un discorso quasi logoro per molti credenti: quante volte a catechismo, nelle omelie, nella fede spiccia, nella morale superficiale abbiamo usato e abusato della parola, senza soffermarci sui contenuti morali e teologici del termine stesso?

E quante volte il focus è stato spostato sul colpevole, o peggio sull’atto, senza tenere in debito conto l’enorme fatica di elaborazione e conversione (intellettuale, morale, di fede) di colui che è stato ferito?

Il perdono sembra quasi dovuto, dato per scontato ovvero come ovvio o a basso prezzo. Sorte simile pare toccare anche al «pentimento». Già queste mie domande (retoriche, in una certa misura) aprirebbero momenti ampi e articolati di riflessione teologica, sacramentale, morale…

Questione di legami

Siamo esseri in relazione e talora questa relazione pare spezzarsi, per un atto piccolo o grande di male, che subiamo o infliggiamo.

Scrivo «pare spezzarsi» perché paradossalmente (tre volte paradossalmente) la relazione non si spezza, ma semplicemente cambia forma, ritmo, intensità… magari si sospende, ma non si spezza. Perché non può esserci perdono reale senza pentimento, e pentimento sincero senza perdono; in altre parole, senza una relazione tra la vittima e il colpevole.

E tre sono, appunto, i paradossi – legati in primo luogo alla libertà – che dobbiamo tenere in considerazione:

  • ogni atto è libero (certo: talora sotto alcuni condizionamenti), ma è anche irrevocabile, irreversibile. Ma tale atto di male, che pare non essere più sotto la libertà di alcuno, può non essere l’ultima parola sull’esistenza (e quindi può essere assunto nuovamente in libertà e come libertà) solo in un comune e reciproco lavoro di assunzione del tempo, in un continuo intreccio tra memoria, oblio, apertura al futuro;
  • l’atto deve essere in qualche modo inescusabile, imperdonabile, come condizione di un pentimento e perdono: soltanto svincolandosi dal determinismo di un pagamento, di un’equità statica, può rimettere in gioco la libertà e con esse la creatività e l’umanità;
  • la vittima e il colpevole possono liberarsi dal male (subito/compiuto) solo quando liberano l’altro dal male (compiuto/subito): è un processo che richiede una reciproca e inversa assunzione della libertà – e liberazione – altrui.
Da una logica retributiva a una logica riparativa…

La «vendetta del perdono», seppur in uno stravolgimento dei termini, ricade ancora sotto la logica di una morale retributiva, quella dell’«occhio per occhio, dente per dente».

Il passaggio al quale la riflessione e la prassi morali sono chiamate è quello da una logica retributiva a una logica riparativa, cioè che rimetta al centro il legame e la relazione (in tal senso si stanno muovendo anche parecchi studi e modelli applicativi, soprattutto in ambito giuridico e giudiziario, includenti gli aspetti sia personali sia sociali di tali percorsi).

… e a una logica riconciliatrice

La riflessione teologico-morale cristiana non può, tuttavia, esimersi dal fare un ulteriore passaggio per tendere a una logica sempre più riconciliatrice, dove il modello è precisamente l’orizzonte di prossimità – simultaneamente con Dio e con gli uomini – che la vicenda intera di Gesù di Nazaret, culminata con la morte in croce, ci rende possibile non come ipotesi o possibilità, ma come realtà e presenza reale.

 

Gaia De Vecchi è insegnante di religione presso l’Istituto Leone XIII e docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore e l’Istituto superiore di scienze religiose a Milano. Fa parte dell’ATISM e del gruppo di redazione di «Moralia». Ha scritto Il peccato è originale?, Cittadella, Assisi 2018.

Lascia un commento

{{resultMessage}}