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Moralia Blog

Preti sposati: dov’è la novità

Non è corretto ridurre la ricchezza e la profondità dei contenuti che hanno animato il dibattito all’interno del Sinodo dei vescovi per la Regione panamazzonica (6-27 ottobre 2019) alla sola questione del celibato dei sacerdoti (alla quale si aggiunge, al massimo, quella del diaconato femminile).

Forse anche questa volta abbiamo capovolto la narrativa: mentre l’Amazonia chiede all’Occidente (anche all’Occidente ecclesiale, sia chiaro) una conversione integrale, innanzitutto ecologica, che passi dal riconoscimento delle culture indigene, l’Occidente si preoccupa quasi esclusivamente di temi che riguardano gli uomini e il potere, come, per l’appunto, il celibato dei sacerdoti.

Se prima del Sinodo l’attenzione si era concentrata sul n. 129 (lett. a, n. 2) dell’Instrumentum laboris, che apriva alla «possibilità di ordinazione sacerdotale di anziani, preferibilmente indigeni, rispettati e accettati dalla loro comunità, sebbene possano avere già una famiglia costituita e stabile», adesso, al termine dell’assise sinodale, il paragrafo del Documento finale più ripreso è il n. 111, in cui si propone l’ordinazione sacerdotale di «uomini idonei e riconosciuti della comunità, che abbiano un diaconato permanente fecondo e ricevano una formazione adeguata per il presbiterato, potendo avere una famiglia legittimamente costituita e stabile, per sostenere la vita della comunità cristiana attraverso la predicazione della Parola e la celebrazione dei sacramenti nelle zone più remote della regione amazzonica».

Pur non sapendo ancora come papa Francesco risponderà a tale richiesta dei padri sinodali – la decisione spetta ora al romano pontefice –, molti commentatori hanno accolto queste parole come se segnassero la fine del celibato obbligatorio per la Chiesa di rito latino. Ma è davvero così?

Niente di nuovo sotto il sole?

In realtà il passaggio che abbiamo citato è più prudente di quanto possa sembrare. La possibilità di ordinare uomini sposati è inserita soltanto dopo aver ribadito, in maniera abbastanza chiara, la dottrina sul celibato sacerdotale.

Emerge un problema di fondo: si può parlare di sacerdozio di uomini sposati (in termine tecnico «uxorato») senza mettere in discussione le motivazioni teologiche, spirituali e pastorali che sostengono in maniera «ufficiale» il celibato obbligatorio dei preti? Lo si può fare, certo, ma a una condizione: quella di interpretare la dicotomia tra sacerdozio celibatario e sacerdozio uxorato nei termini di un rapporto tra norma ed eccezione.

Il sacerdozio celibatario sarebbe la norma, mentre quello di uomini sposati un’eccezione dovuta a contingenze culturali o storiche. Si tratta di uno schema non nuovo per la Chiesa cattolica. Il clero sposato è presente in diverse Chiese cattoliche di rito orientale. È riconosciuto pure nel Codice dei canoni delle Chiese orientali (1990), non prima di aver sottolineato il valore del celibato: «Il celibato dei chierici, scelto per il Regno dei cieli e tanto conveniente per il sacerdozio, dev’essere tenuto ovunque in grandissima stima, secondo la tradizione della Chiesa universale; così pure dev’essere tenuto in onore lo stato dei chierici uniti in matrimonio, sancito attraverso i secoli dalla prassi della Chiesa primitiva e delle Chiese orientali» (can. 373).

Nella Chiesa di rito latino invece già dai tempi di papa Pio XII i pontefici hanno dispensato dall’obbligo celibatario nell’accordare l’ordinazione presbiterale a ex pastori di tradizione luterana o di tradizione anglicana, come prevede peraltro anche la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus (2009) di Benedetto XVI.

Insomma, nihil sub sole novi: legare la possibilità di un clero uxorato a ragioni contingenti, anche di carattere culturale, che sono alla base delle difficoltà delle comunità amazzoniche di accedere all’eucaristia non è un elemento di discontinuità per la disciplina ecclesiastica.

Se poi la questione dei preti sposati viene inserita nell’ambito della predisposizione di un «rito amazzonico», si ripropone esattamente lo schema della possibilità che il diritto particolare preveda un’eccezione, ferma restando la disciplina generale della legislazione universale.

Sotto il profilo canonistico, la novità sarebbe semmai rappresentata dall’istituzione di una Chiesa «sui iuris», cioè con un suo diritto particolare, all’interno del rito latino. Infatti le diversità esclusivamente liturgiche che connaturano i riti latini (ad esempio il rito romano, il rito ambrosiano, il rito mozarabico…) non permettono di considerare «sui iuris» queste Chiese particolari. Ma nel caso della Chiesa «amazzonica» la diversità con gli altri riti latini potrebbe essere di natura ordinamentale, ovvero disciplinare, e non solo liturgica, tanto da dover pensare a un corpo normativo proprio, sebbene particolare.

Si consideri, inoltre, che il Documento finale del Sinodo non parla neanche di viri probati – come pure ci aveva abituato il card. Martini – bensì propone di conferire l’ordinazione sacerdotale ai diaconi permanenti. Senza avere riguardo, in questo caso, per la specificità della vocazione alla stabilità nel grado diaconale rispetto alla vocazione al ministero presbiterale. In altre parole, viene prospettata come regola per la regione amazzonica ciò che il Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti (1998) considera come una «una rarissima eccezione, possibile soltanto quando speciali e gravi ragioni lo suggeriscono» (n. 5).

Un approccio universale al tema

Tutto ciò porta a dire che il passaggio davvero «rivoluzionario» – se così si può dire – - del n. 111 del Documento finale è l’ultimo breve periodo: «A questo proposito, alcuni si sono espressi a favore di un approccio universale all’argomento».

«Alcuni» padri sinodali chiedono, quindi, un approccio universale al tema. Ma è evidente che un approccio universale presuppone innanzitutto di cambiare … approccio. Fin quando il sacerdozio uxorato sarà interpretato nella Chiesa cattolica come un’eccezione dinnanzi alla regola del sacerdozio celibatario non ci sarà spazio per una riflessione che sia veramente «universale». Una simile lettura finirà sempre per dividere, come avviene oggi, i preti di serie A dai preti di serie B, cioè da quei pochi preti che vivono in uno stato coniugale.

Quel che serve è, invece, un’ampia riflessione teologica, etica e giuridica sul senso e sul significato dei ministeri nella comunità ecclesiale. Una riflessione, in altre parole, che sia in grado di coniugare la fedeltà al messaggio evangelico con la necessità di elaborare nuove categorie, e che non affronti i nodi che vengono al pettine come compartimenti stagni (del tipo: prima si pensa all’ordinazione degli uomini sposati, poi all’accesso delle donne ai ministeri istituiti e al diaconato, e via dicendo).

È necessario, al contrario, un discorso organico sui ministeri ecclesiali, da portare avanti con serenità e libertà, con parresia. Ma forse per tutto questo un Sinodo sull’Amazzonia non può (per fortuna) bastare.

 

Luigi Mariano Guzzo, canonista, collabora con la cattedra di Diritto ecclesiastico e diritto canonico, e insegna Beni ecclesiastici e beni culturali presso l’Università Magna Grecia di Catanzaro. 

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