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Moralia Blog

Primo Levi e il Prometeo digitale

Nasceva esattamente cento anni fa, il 31 luglio 1919, Primo Levi: scrittore, partigiano, autore di una delle testimonianze più forti della tragedia dell’Olocausto.

Primo Levi scrisse anche racconti, in particolare Storie naturali (1966) una raccolta di 15 testi pubblicati sotto lo pseudonimo di Damiano Malabaila. Sono racconti brevi di carattere scientifico e fantascientifico, che prefigurano alcune delle conquiste della rivoluzione digitale e che Levi scrive, in buona parte, come trasposizione moderna del mito di Prometeo.

La produzione di Levi, soprattutto nei racconti, compie un passaggio «from testimony to ethics», e infatti l’autore stesso definisce i suoi racconti come «un volume di racconti-scherzo, di trappole morali, magari divertenti ma distaccate, fredde», ove riscontriamo una forte densità semiotica che veicola la visione etica di Levi, per noi preziosa in un tempo dove le sue finzioni letterarie prendono corpo nella realtà digitalizzata.

Fermare Prometeo

Pur discostandoci dal pessimismo di fondo dell’autore, per cui vi è un’insuperabilità storica di Auschwitz, recuperiamo volentieri invece la critica velata di ottimismo all’homo faber che, investito dalla straordinaria potenza delle sue creazioni, dimentica i limiti che l’essere umano deve avere e oltre i quali non è bene che si arrischi ad andare, perché non è in grado di gestirne le conseguenze.

Nel racconto «Alcune applicazioni del Mimete» si narra di un’invenzione che permette di duplicare ogni cosa, sino a duplicare anche l’essere umano, e così il protagonista si trova ad avere e dover gestire due mogli identiche. Primo Levi qui riassume la questione che ci sta a cuore, chiedendosi chi possa arginare l’«uomo pericoloso, (...) ingegnoso e irresponsabile, superbo e sciocco».

Le soluzioni narrative scelte sono tutte molto simili fra loro, e analoghe alla vicenda narrata dal mito di Prometeo. I personaggi vengono messi nell’impossibilità di agire, così come fu incatenato il titano: il bombardamento del laboratorio per il dottor Leeb di «Angelica Farfalla», la prigione per il narratore di «Alcune applicazioni del Mimete», uno stato di catalessi tanto per il dottor Kleber di «Versamina» quanto per Simpson in «Trattamento di quiescenza».

Levi dunque suggerisce che alla rivoluzione tecnologica si debba opporre uno stop, fermarsi prima che sia troppo tardi. E la cronaca sembra dargli ragione, con il caso dell’algoritmo così potente da essere capace di creare fake news o spam assolutamente credibili, tanto da indurre chi lo ha creato, OpenAi, a non rilasciarlo nell’infosfera.

Quale posizione adottare e suggerire? Ci convince la tesi che fu di Lazzati: dare spazio alla scienza senza costringerla in alcun modo, ma nello stesso tempo lavorare a una cultura capace di governare i risultati scientifici creando una coscienza condivisa, che non metta al primo posto il profitto o l’innovazione per l’innovazione, ma l’ecosistema informativo, l’habitat in cui tutti noi viviamo.

Scegliendo in questo modo preserviamo la libertà dell’uomo, che è nello stesso tempo chiamato a custodire il frutto dell’albero del bene e del male ora che è suo, ma senza accedere all’albero della vita che ancora appartiene solamente al Creatore.

 

Luca Peyron* è prete della diocesi di Torino, docente di teologia all’Università cattolica di Milano e autore di Elogio della generosità (Elledici 2018) e Incarnazione digitale (Elledici 2019).

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