Quando un lebbroso ti cambia la vita
La predilezione dei poveri «è stata anche la scelta di san Francesco d’Assisi: nel lebbroso fu Cristo stesso ad abbracciarlo, cambiandogli la vita».
Vorrei trarre spunto per le riflessioni che seguono dalle parole di papa Leone XIV nell’esortazione apostolica Dilexi te, dedicata essenzialmente al tema della povertà: l’attenzione e predilezione per i poveri «è stata anche la scelta di san Francesco d’Assisi: nel lebbroso fu Cristo stesso ad abbracciarlo, cambiandogli la vita» (n. 6).
Vorrei unire due considerazioni temporalmente concomitanti: la pubblicazione di questa prima esortazione apostolica di Leone XIV, avvenuta il 4 ottobre del 2025, e la festività di San Francesco ricorrente nello stesso giorno.
Il papa attuale riprende alcune tematiche abbozzate dal suo predecessore, che avrebbero costituito il testo di un ulteriore documento – per così dire – «sequel» dell’enciclica Dilexit nos. Tra tutte, quella che maggiormente mi colpisce è il vedere la povertà non tanto e non solo come problema sociale ma… familiare.
La vita del lebbroso nella mia famiglia
La vita del lebbroso, allora, non diventa la destinazione ultima di un’encomiabile azione caritativa sia individuale che sociale nei confronti di una «piaga» per estirparla, ma un fatto quasi intimo, un problema di famiglia appunto. A esser malato non è un membro della società, ma innanzitutto un membro della nostra famiglia. Bisogna prendersene carico innanzitutto come impegno che ci tocca da vicino prima ancora che come collettività. Mi verrebbe da dire: il lebbroso è uno di noi. Con questo spirito lo avvicina Francesco.
Ma ci sono altre valenze che possono essere evidenziate. Il testo evangelico specifica che Gesù lo toccò. Il verbo utilizzato (aptō) evidenzia proprio il contatto fisico ravvicinato, quasi l’appiccicarsi. Nel toccarlo Gesù non supera solo la malattia ma un mondo di isolamento, di diffidenza, di ostracismo, di emarginazione: è un tocco che non accarezza ma abbatte con forza, con vigore, da una parte risanando, dall’altra distruggendo. È una breccia che si crea in un muro ritenuto invalicabile e indistruttibile.
In questo spirito, che il papa definirebbe «familiare», Gesù fa suo il lebbroso, non si limita a ritenerlo «prossimo» ma lo fa realmente vicino, lo rende uno del tutto simile a lui nella dignità, e questo prima ancora di sanarlo.
In lui, peraltro, Gesù sana l’intera collettività malata di emarginazione e isolamento, che lo aveva relegato nello squallore di una marginalizzazione sociale che forse facciamo fatica a immaginare, lercia, maleodorante, disgustosa, popolata da figure macerate nella carne e nell’animo.
Paradossalmente sono proprio questi ultimi che abbraccia Francesco, e che il papa ci invita a riconoscere e a rendere «familiari», compito forse non meno impegnativo di quello del perdono, che in genere si ritiene la componente più difficile del cristianesimo.
La dimensione di reciprocità
C’è un altro paradosso nell’episodio agiografico, ed è quello di una strana e impensata reciprocità che si realizza. Se da un lato Francesco abbraccia il lebbroso vedendovi Cristo, dall’altro è proprio quel Cristo incarnato nel lebbroso ad abbracciare Francesco.
Al di là dell’enfasi che questo quadro può evidenziare, credo che sia esperienza comune a molti di noi quella di tornare edificati e ammirati dalla visita a un malato che volevamo abbracciare e consolare. Forse non ci siamo riusciti, ma lui o lei hanno consolato e abbracciato noi.
Allora credo che sia con questo spirito e non nella consueta e un po’ sdolcinata cornice agiografica che dobbiamo leggere questo episodio e rivederlo expansivus sui nel perpetuarsi temporalmente proprio nel segno di quella reciprocità a cui Leone XIV ci invita con le sue parole.