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Moralia Dialoghi

Dal De quolibet al blog: continuità ed evoluzione di un modello comunicativo in teologia

De quolibet

Avvento 1256: primo anno di attività accademica a Parigi del frate domenicano Tommaso d’Aquino e primo Quodlibet (il cui tracciato è attualmente in Quodlibet VII). Accanto a una rigorosa escussione sui sensi della Scrittura, ecco un argomento che aveva suscitato all’epoca vivaci contrasti: l’obbligo morale per i religiosi di lavorare con le proprie mani, per combattere la pigrizia, frenare la sensualità e provvedere alle necessità della vita.

L’equilibrio di Tommaso evita sia di accentuare una teologia della perfezione fino a sdegnare il lavoro manuale, sia di ritenere quest’ultimo l’unica modalità equilibratrice della propria esistenza. I religiosi praticano attività spirituali per il bene comune, pertanto non sono obbligati al lavoro manuale, ma meritano di essere sostentati dalla società, purché considerino il loro ministero pastorale come servizio continuativo al popolo di Dio: questa l’argomentazione difesa pubblicamente dal “dottor Angelico”.

Spulciando tra gli articula del regesto delle Quodlibetali emergono temi assai disparati. Rigorose puntualizzazioni di argomenti cristologici, ma anche riflessioni su questioni di attualità, non di rado occasionate da contesti, che provocano l’abilità del magister a rispondere alle provocazioni dei suoi interlocutori. Anche sulla trasparenza delle transazioni commerciali: «utrum venditor teneatur dicere emptori vitium rei venditae» (Quodlibet II, q. 5, art. 2).

È documentato il timore di alcuni doctores della Scolastica medievale di “mettersi in gioco” in un confronto “quodlibetale”, lasciandosi giudicare da un pubblico critico e interessato. Non per pudore, ma per la preoccupazione che il processo di confronto dialogico mettesse a rischio il loro guadagnato (e riconosciuto) prestigio intellettuale. In ogni caso la ricerca, sottesa al metodo della quaestio, manteneva viva e arricchiva l’agenda del teologo introducendo nuove implicazioni ed esplicitazioni del sapere della fede. Alcune quodlibetali di Tommaso sono la base per la successiva sistematizzazione delle questioni della sua Summa theologiae.

Come ha riferito magistralmente Hans Urs von Balthasar: «La scuola teologica medioevale procede ancora a ritmi dialogici: in mezzo la quaestio, a sinistra le ragioni pro, a destra le ragioni contro, sic et non, viene elaborata la risposta, che nella sua forma finale reca a fianco ancora obiectiones e responsiones. Con queste cellule drammatiche unicamente si costruiscono i grandi organismi delle Summae». Anche a fronte di opere compendiarie e di sistematica, non è soffocata, almeno sino alla manualistica barocca e all’introduzione del procedimento dimostrativo secondo il metodo della thesis, «la grande forma» della teologia «che sola è valida, e questa è sempre aperta, interrogativa» (Teodrammatica, volume uno, Jaca Book, Milano 1980, 119).

Casus conscientiae

Alla tradizione medievale si può accostare, specie per l’etica teologica, la pratica della casistica sei-settecentesca, talvolta espressione oziosa e moralistica di curiositas, ma nei migliori esempi, operazione logica di ricerca di giudizi e valutazioni scaturenti da una attenta lettura del costume e dell’evoluzione delle istituzioni. Perché un teologo del Sei-Settecento doveva occuparsi di parrucche (e parrucchieri) delle donne? O perché esporre una accurata fenomenologia dell’“andare a teatro”? Non dissimile oggi l’attenzione – proposta da Moralia – per la chirurgia estetica di Angelina Jolie o per il business-system legato al calcio.

Più che sottolinearne i noti limiti (molti lo hanno fatto egregiamente), va riconosciuto che la casistica è stata liberale nei confronti di un sistema legalistico ipertrofico, restituendo al singolo uno spazio di autonomia decisionale, supportata dalle opiniones dei periti della scienza morale. La casistica riporta costantemente all’attenzione la complessità dell’agire umano, sottoposto a molteplici fattori, e sviluppa un processo valutativo che non impiega come unico parametro il dispositivo della norma, ma raccoglie tutte le dimensioni implicate nell’atto umano. Ulteriore elemento è l’apporto fornito dalla casistica nel mantenere in evoluzione il discorso morale, superando la rigidità di giudizi ereditati dal passato, ben difficilmente riproponibili in contesti di rapida evoluzione e autonomizzazione dei sistemi sociali, soprattutto in ambito economico e politico. Di fronte al possibile irrigidimento della logica deduttiva, poi, essa ha tenuto aperta un’altra forma di razionalità che nella considerazione del possibile protesta la sua umiltà.

Il “theo-blog”

La teologia contemporanea non parla più latino (anche se lo deve conoscere, per non dimenticare il suo passato). Inserita in un flusso e intreccio di saperi che ne hanno ridimensionato l’egemonia di un tempo, avverte l’importanza di confrontarsi con altri saperi e sistemi valoriali di fronte a inedite questioni che stimolano la ricerca e invitano a sviluppare un giudizio – in modo non dissimile dai magistri medievali con le loro quodlibetali e dai doctores della prima modernità con i casus conscientiae. Per questa operazione è importante fermare il flusso (indiscriminato) di notizie (e di fake news) e fissare l’attenzione sulla risonanza riflessiva dei fatti. Il commento di un blog (teologico) non è pura operazione di marketing delle idee, ma modalità di esercizio valutativo per implementare la qualità del dibattito pubblico.

Gli scholastici avevano un uditorio di competenti interno a un sapere (o aperto alle potenzialità di una universitas studiorum). I casisti del Sei-Settecento avevano la “repubblica delle lettere”. I theo-blogger hanno di fronte a sé la vastità (non sempre dominabile) dell’oceano comunicativo, occasione per tracciare rotte di percorsi di senso da offrire a un pubblico più vasto, fatto anche di “anonimi” navigatori della rete. E allora quale il valore dei blog teologici, come “Moralia” e “Il Regno delle donne”? Una possibile risposta incrocia tre ambiti assai urgenti.

Tre ambiti

1) Parole per la cura delle “istituzioni dell’umano” e la trasmissione sapienziale della vita

Se lo strumento di un blog può essere modesto, tuttavia non è modesta l’ambizione che lo abita: operare un pensiero ostinatamente teso ad ordinare la complessa e contraddittoria mappa del mondo che abitiamo. Che ambisce a una parola pensata e pesata (logos) che riporti la matassa delle opinioni a un livello ancora più alto del sapere di settore: al livello delle istituzioni dell’umano. «Le istituzioni dell’umano sono le forme universali in cui si struttura l’esistenza dell’uomo come esistenza umana: quelle che la fanno nascere e se ne prendono cura, l’attrezzano per la responsabilità, le riconoscono un valore, le assegnano uno scopo. […] Suscettibili di infinite trasformazioni [esse] si riassestano tenacemente nell’alveo loro assegnato tra l’anima e le tecniche, allo scopo di garantire l’edificazione dell’umano e l’addomesticamento del suo mondo. […] Contraddirle frontalmente significa, sulla distanza, ritrovarsi privi di sostanza umana» (P.A. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monotesimo del sé, Vita e Pensiero, Milano 2017, 48. 54). Comunicazione mediatica e trasmissione sapienziale della vita: si tratta di comprendere la distinzione e pensarne il nesso, senza cadere nella trappola di sostituire una con l’altra.

2) Un ambiente che eviti i rischi della comunicazione mediate attuale

Il blog teologico, pur limitato, offre un ambiente comunicativo che cerca di prendere le distanze da alcuni tipici rischi della comunicazione mediata, in cui “l’insignificante diventa evento” (trionfo delle soft news); in cui le rappresentazioni che circolano nelle camere di risonanza comunicativa dei social sono “rappresentazioni mutilate” e auto-referenziali rispetto a una comunità di uguali; in cui il senso tende a diventare un prodotto di scambio, senza processo di compensazione riflessiva al di là della sua immissione immediata nel circuito delle opinioni.

3) Da una comunicazione “ripetitiva” a una “generativa”

Una comunicazione diventa “generativa”, secondo suggestioni di C. Giaccardi, quando sa cogliere connessioni laddove apparentemente ci sono incompatibilità; quando favorisce nuove comprensioni, oltre la ripetizione del già detto e sentito; quando contrasta la semplificazione che mortifica la ricchezza del reale e ne preserva l’integrità e la ricchezza plurale; quando non disegna trincee, ma ponti, pur provvisori, per superare il confronto muscolare delle opinioni e i dualismi in cui troppe volte risulta inquadrata la comprensione dei problemi.

Ancora, comunicare in modo generativo, è superare la riduttiva formula del “trasmettere qualcosa a qualcuno”, per istituire un approccio dinamico, in cui gli interlocutori del dialogo entrano insieme nel dinamismo della vita, riducendo le distanze e impegnandosi nel compito condiviso di comprenderne il senso possibile. Ridurre la vita a un modello in-formazionale, infatti, è sempre operazione limitata, pur se inevitabile. Tale consapevolezza pone nella dinamica comunicativa una necessaria “flessibilità della forma”, per far emergere non solo la complessità del reale, ma l’inesauribilità della vita e delle sue letture.

La flessibilità della forma non rappresenta, nel caso particolare di un blog teologico, un pensiero di divulgazione o di classe inferiore. È invece un prendere sul serio l’inesausto ricercare connesso alla verità. Perché la ricerca della verità è tenacia nel capire ciò che continua a non poter essere inquadrato negli schemi del conosciuto. È apertura all’alterità del senso, rispetto al già disponibile. È varco per tentare di dire la stessa “alterità” di Dio e del suo dialogo ininterrotto con l’uomo.

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