La questione etica e antropologica: sponsalità e generazione
Il passaggio forse decisivo dell’Humanae vitae, o il suo guadagno teorico, è quello che sottolinea la «connessione inscindibile» (n. 12) tra il significato unitivo e procreativo del rapporto coniugale. Questa affermazione non può essere ridotta alla formulazione di una norma, ma va compresa nel suo senso di evidenza antropologica.
Un’alleanza
La relazione coniugale non è riducibile a scambio di corpi (fisici), ma è un’alleanza tra un uomo e una donna che, rispondendo a una promessa ricevuta, promettono di vivere l’uno “con” e “per” l’altro, per sempre. Questa donazione reciproca è la forma antropologica fondamentale del sacramento cristiano. Vivendo l’alleanza «nel Signore» (1Cor 7,39), i coniugi credenti riconoscono che all’origine e al compimento del dono nuziale si dà l’atto di Gesù, che ha amato la sua Chiesa fino a dare la vita per lei (cf. Ef 5,21-33). La permanenza dell’evento cristologico per i credenti trova nella mediazione ecclesiale la sua forma compiuta e irrinunciabile.
Questa prospettiva, che riconosce il nesso costitutivo tra sponsalità e generazione, va sottolineata nella cultura attuale, che specie in Occidente è fortemente tentata di cadere in una privatizzazione e individualizzazione della sessualità, che porta a derive evidenti, pratiche e teoriche, come nelle teorie più radicali del gender. In tale contesto è decisivo sottolineare come l’identità sessuale abbia sempre una qualità relazionale, che nella differenza tra uomo e donna ha la cifra più evidente, e come questa trovi nella relazione coniugale la sua forma compiuta.
L’evidenza del nesso tra sponsalità e generazione significa che l’alleanza coniugale è segnata in modo originario dal desiderio del figlio. Per un verso, questi è voluto in una relazione, nella quale i due lo attendono l’uno dall’altra, come segno e frutto dell’amore reciproco. Per altro verso è evidente come non basti volere un figlio perché esso arrivi davvero, come appare anche nell’esperienza della sterilità di una coppia.
La generazione comporta una dialettica di passività e di attività. Generare significa – paradossalmente – compiere un atto in cui si riceve un dono. Ogni figlio è il «coronamento» (Gaudium et spes, n. 48) del desiderio dei coniugi, ma sempre lo trascende. Egli non è mai come i genitori lo avevano immaginato. Rimane altro da loro, mentre è il loro figlio. In questo sta il profilo teologico della procreazione come atto etico. Per i due sposi generare significa rispondere (attivamente) a un dono che li trascende. La relazione sponsale non può prescindere dal “voto” creatore (G. Marcel). Tra sponsalità e generazione c’è una correlazione virtuosa, in cui ciascun aspetto va compreso a partire dall’altro, superando ogni tipo di gerarchia funzionale.
Oltre la norma
In questa prospettiva l’enciclica non può essere ridotta alla ripetizione della norma, che pure essa enuncia. I metodi naturali sono la figura concreta dell’ingiunzione (morale), in questo caso la buona relazione sponsale e genitoriale, ma questa eccede la norma stessa. In tal modo questa non viene abolita, ma non può essere identificata con l’ingiunzione. Ci è cosi richiesto di non ridurre l’Humanae vitae a una norma, senza perderne il senso antropologico e teologico che eccede la norma stessa.
Ne deriva che non si può dire a priori che una scelta diversa dai metodi naturali sia in contrasto con la responsabilità generativa. Nei metodi naturali si dà un senso antropologico che è più del metodo stesso: esso consiste nell’esperienza di una buona relazione sponsale, includendo in essa il “voto creatore”. L’osservanza “materiale” del metodo non garantisce a priori una buona intenzionalità pratica. Così ci può essere – paradossalmente – un modo di praticare i metodi naturali che ne tradisce il senso e viceversa, ci sono situazioni coniugali in cui il metodo, per giustificati motivi, non è accessibile o praticabile o possibile e dunque una scelta differente non è a priori incompatibile con il nesso tra alleanza sponsale e generazione responsabile.
Novità nella continuità
Questa proposta antropologica e teologica, se accolta, rappresenterebbe senza dubbio una significativa novità nella secolare tradizione del magistero ecclesiastico sul matrimonio. Non sarebbe però la prima volta. Anche in questo campo, il magistero ha fatto registrare non pochi nuovi orientamenti e significativi cambiamenti. Basterebbe ricordare, all’inizio, la durissima condanna della contraccezione nella Casti connubii (1931) e le risposte del S. Uffizio (1944) che rifiutavano categoricamente la possibilità, richiesta da teologi del “personalismo”, dell’eguale importanza dei due “fini” del matrimonio, seguita poi dall’accettazione dei metodi naturali in Pio XII (1951) e infine il significativo dibattito al Concilio, che alla fine abbandonava la gerarchia dei due fini e affidava al papa la questione dei metodi per la regolazione responsabile della “paternità”.
Da qui nacque l’Humanae vitae che, al termine di un dibattito intenso ma ancora acerbo sotto il profilo teologico, abbandonava la terminologia dei fini assumendo quella personalista dei “significati”, ribadendo nel contempo la tradizione. Non si può negare che l’accettazione dei metodi naturali, consentendo a due sposi un rapporto sessuale volutamente – perché fisiologicamente – infecondo, contraddica la subordinazione dell’amore alla generazione, confermando peraltro una “svolta” già in atto al Concilio. Questi esempi mostrano come il magistero ecclesiastico abbia già accolto dei cambiamenti. Esso ha dunque sempre accettato una dialettica di continuità e discontinuità.
All’interno della continuità la discontinuità non è una rottura, eppure grazie a essa si va al di là della semplice ripetizione. Nello stesso tempo, una discontinuità senza continuità diventerebbe una contraddizione inaccettabile. Da qui la necessità di un profondo dibattito teologico. È compito della teologia pensare in modo sistematico le scelte concrete della pratica credente (intellectus fidei), senza mai prescindere dal magisterium dei pastori, che per il dono dello Spirito, assicurato da Gesù alla sua Chiesa, hanno il compito di giudicare, anche in modo definitivo, l’eventuale incompatibilità di una posizione teologica con la verità della Rivelazione.
“Naturale”
I nodi teologici implicati in un possibile cambiamento riguardano anzitutto il significato del “naturale” e della legge naturale. La legge morale non è riducibile a osservanza di una legge fisica o biologica – qui si apre l’altra grande questione della tecnica e della scienza –, ma va ripensata nel suo nesso costitutivo alla coscienza e in questo caso alla relazione coniugale e genitoriale.
Più radicalmente, è necessario ripensare il rapporto tra oggettivo e soggettivo, non riducendo – intellettualisticamente – l’oggettivo a una norma conosciuta dalla ragione e poi applicata dalla coscienza soggettiva. Anche nella tradizione teologica, l’objectum è propriamente l’atto – certo in Tommaso conosciuto dalla ragione – e questo è l’atto del soggetto, che non può essere giudicato a prescindere dalla sua storia, personale, culturale e ecclesiale. Tra oggettivo e soggettivo si dà una correlazione ermeneutica virtuosa. La norma viene così compresa nella sua valenza simbolica originaria, poiché essa si riferisce a un bene che anticipa la coscienza e le è dato nell’esperienza concreta, che essa è chiamata a interpretare. È in questo bene, anticipato nell’esperienza antropologica, che i credenti riconoscono l’anticipazione del compimento realizzato nel Vangelo di Gesù.
Le difficoltà di molti coniugi rispetto alla norma effettivamente enunciata nell’Humanae vitae e perfino l’abisso – si è parlato di “scisma” sommerso – tra la prassi dei fedeli e il magistero ecclesiastico, con il silenzio più o meno imbarazzato dei pastori, potrebbero dunque diventare un’occasione feconda, che sollecita la teologia morale non certo a facili adattamenti alle mode, ma a raccogliere la sfida della prassi credente (sensus fidelium), per discernerla alla luce della verità della Rivelazione.