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Moralia Dialoghi

Una lettura del parere del Comitato nazionale per la bioetica

La pandemia di COVID-19 ci ha posto di fronte a una questione spesso ipotizzata nelle discussioni teoriche, ma che difficilmente si riscontra in condizioni ordinarie: l’idea cioè che si debbano razionare le risorse mediche, decidendo chi deve essere curato e chi no. L’aspetto inquietante è l’idea di una decisione a priori, ossia che ci siano criteri stabiliti che escludono qualcuno dai trattamenti.

Pur essendo in prima battuta in contrasto con la vocazione universalistica del Servizio sanitario nazionale, quest’idea non è necessariamente da respingere, nei limiti in cui non si basi su criteri iniqui o discriminatori. Può invece rendersi necessaria, anche a fronte del riconoscimento dell’eguale dignità di tutte le persone e dell’eguale diritto di tutti a ricevere tutte le cure necessarie.

Il punto infatti è che se mancano risorse per curare tutti, qualcuno comunque non sarà curato; e che questo avvenga sulla base del caso non è più accettabile rispetto al verificarsi sulla base di un criterio.

Si tratta invece di vedere se esista un criterio sensato per operare queste scelte; ma bisogna riconoscere che, anche in condizioni ordinarie, un qualche razionamento già avviene, sia pure in maniera implicita. Infatti, se ad esempio per fare una risonanza magnetica col Sistema sanitario nazionale ci vogliono sei mesi, è chiaro che qualcuno non avrà diagnosi e cura in tempi utili e magari morirà, o patirà seri danni, molto prima di quanto non sarebbe successo altrimenti.

Il criterio clinico

Nel suo documento relativo al triage in emergenza pandemica, il Comitato nazionale per la bioetica ricostruisce opportunamente il quadro costituzionale in cui si colloca il diritto alla salute e sottolinea giustamente la necessità di un’attenzione alle persone più vulnerabili, come gli anziani.

La sua proposta è di considerare «il criterio clinico come il più adeguato punto di riferimento, ritenendo ogni altro criterio di selezione (…) eticamente inaccettabile».

Criterio clinico significa scegliere in base al bisogno medico e alla sua urgenza; un criterio indubbiamente condivisibile, che però tende a trascurare il vero problema. Non ha torto Maurizio Mori, quando nota che quest’ultimo consiste nel chiedersi che fare proprio quando l’indicazione clinica è uguale per tutti, tutti potrebbero beneficiare del trattamento, ma le risorse sono insufficienti. Il problema drammatico, rispetto al quale il Comitato non dà indicazioni chiare, è appunto che fare a parità d’indicazione terapeutica. Qui – una volta ammesso che sesso, etnia, condizione e ruolo sociale, disabilità e responsabilità personale non sono criteri accettabili – si tratta soprattutto di decidere se devono giocare un ruolo i risultati che ci si possono attendere utilizzando certe risorse.

Non possiamo qui discutere dei sistemi che sono stati proposti per quantificare i risultati degli interventi sanitari; tuttavia un qualche indice che consenta di quantificare i benefici prodotti con l’intervento sembra doversi accettare, se si vuole dare un’indicazione nei casi più difficili.

In prima battuta è giusto richiamare il diritto all’uguale trattamento per tutti e il divieto di qualunque discriminazione operata su basi non medico-scientifiche; tuttavia, in seconda battuta, può rendersi necessario attribuire una priorità di trattamento a chi è in grado di beneficiare maggiormente, sia perché ha maggiori probabilità di sopravvivere, sia perché ha maggiori probabilità di avere una buona qualità di vita residua grazie al trattamento, sia perché ha un’attesa di vita maggiore a seguito del trattamento. Tutti e tre questi elementi implicano un qualche riferimento, diretto o indiretto, all’età dei pazienti.

Senza esclusioni a priori

A questo riguardo si può discutere la proposta del documento della Società italiana di anestesia analgesia rianimazione e terapia intensiva (SIAARTI), di porre un limite a priori di età per l’ammissione in terapia intensiva. È dubbio, infatti, che tutti i soggetti al di sopra di una certa soglia non siano in grado di beneficiare del trattamento e debbano essere sfavoriti in tutte le comparazioni con soggetti più giovani. Nondimeno, dove una comparazione è necessaria, può essere ragionevole attribuire una priorità a chi, anche per ragioni anagrafiche, è in grado di beneficiarne maggiormente. Si può ad esempio applicare una sorta di tasso di sconto agli interessi sanitari dei vari soggetti in rapporto alla loro età, senza tuttavia escludere a priori le persone più anziane.

Qualcosa di non molto diverso, d’altronde, dice tra le righe lo stesso Comitato nazionale per la bioetica quando, parlando del criterio di appropriatezza clinica, scrive che «Ferma restando la priorità del trattamento secondo il grado di urgenza, altri fattori sono ordinariamente oggetto di valutazione: gravità del quadro clinico in atto, comorbilità, quadro di terminalità a breve ecc. L’età, a sua volta, è un parametro che viene preso in considerazione in ragione della correlazione con la valutazione clinica attuale e prognostica».

Mentre enfatizza il rifiuto di ogni esclusione a priori, il Comitato riconosce dunque l’opportunità di attribuire priorità in base all’efficacia attesa del trattamento; fa però rientrare anche questa valutazione nel concetto, obiettivamente più rassicurante, dell’appropriatezza clinica.

Purtroppo la crisi che abbiamo attraversato ci ha posto di fronte a questioni terribili e forse vale la pena di essere espliciti nell’identificarle; sperando che non si debbano riproporre in futuro, ma essendo pronti ad affrontare quest’evenienza.

 

Massimo Reichlin è professore ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele, dove insegna Etica della vita ed Etica teorica.

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