Verso il Sinodo: le questioni della sessualità e della vita umana
Le questioni della vita umana: un'introduzione
In questo tempo inter-sinodale, caratterizzato in tutta la Chiesa da una particolare attenzione alla famiglia, le sue bellezze e i suoi drammi, gli articoli che andiamo presentando si propongono di offrire un contributo teologico sintetico, costruttivo e dialogico su alcuni dei più rilevanti temi morali implicati nell’Humanae vitae.
Il primo articolo, su «Il nesso tra sponsalità e generazione: la questione etica e antropologica», vuole mettere in luce il principale guadagno teorico dell’Humanae vitae, identificato nell’inscindibile nesso tra sponsalità e generazione e sostiene che una bene intesa centralità della procreazione responsabile, nel quadro di una rinnovata prospettiva antropologica e teologica, permette di superare una riduzione legalistica della norma.
Il secondo contributo, intitolato «La differenza e le analogie tra i metodi naturali e la contraccezione: questioni scientifiche», si muove nel campo dell’analisi prettamente scientifica sul tema indicato, anche se, contro ogni separazione tra sapere scientifico e questioni etiche, sottolinea come ogni metodica tecnica metta inevitabilmente in gioco la responsabilità e la valutazione morale.
Il terzo tema, su «I metodi naturali: norma o stile di vita?», è stato affidato a due teologi che – in modo prevedibilmente dialettico, ma indipendentemente l’uno dall’altro – hanno riflettuto dai rispettivi punti di vista sul significato dei “metodi naturali”. L’interpretazione di questi metodi nei termini prevalenti di “norma morale” oppure di “stile di vita” comporta differenti sottolineature della sua valenza normativa.
Il quarto articolo, dedicato a «I metodi naturali e la legge naturale: le questioni teoriche», si concentra su uno dei nodi teorici più complessi che sta sullo sfondo dell’enciclica e che affonda le radici nella millenaria storia della teologia morale: la legge naturale. La sfida è di pensare oggi la nozione della natura e il suo rapporto all’imperativo morale, negli ambiti legati al corpo, alla sessualità umana e alle relazioni in essa implicate.
Il quinto articolo, «L’Humanae vitae e i due Sinodi: riflessioni su un recente testo intersinodale», recensisce il dibattito sull’enciclica a partire da un testo pubblicato nel 2015 con la promozione del Pontificio consiglio per la famiglia e mette in rilievo i nodi teorici e le proposte di soluzione che si prospettano oggi come le più persuasive e convincenti, alla luce di un’intelligenza della fede considerata nella sua ineludibile forma pratica.
La questione etica e antropologica: sponsalità e generazione
Il passaggio forse decisivo dell’Humanae vitae, o il suo guadagno teorico, è quello che sottolinea la «connessione inscindibile» (n. 12) tra il significato unitivo e procreativo del rapporto coniugale. Questa affermazione non può essere ridotta alla formulazione di una norma, ma va compresa nel suo senso di evidenza antropologica.
Un’alleanza
La relazione coniugale non è riducibile a scambio di corpi (fisici), ma è un’alleanza tra un uomo e una donna che, rispondendo a una promessa ricevuta, promettono di vivere l’uno “con” e “per” l’altro, per sempre. Questa donazione reciproca è la forma antropologica fondamentale del sacramento cristiano. Vivendo l’alleanza «nel Signore» (1Cor 7,39), i coniugi credenti riconoscono che all’origine e al compimento del dono nuziale si dà l’atto di Gesù, che ha amato la sua Chiesa fino a dare la vita per lei (cf. Ef 5,21-33). La permanenza dell’evento cristologico per i credenti trova nella mediazione ecclesiale la sua forma compiuta e irrinunciabile.
Questa prospettiva, che riconosce il nesso costitutivo tra sponsalità e generazione, va sottolineata nella cultura attuale, che specie in Occidente è fortemente tentata di cadere in una privatizzazione e individualizzazione della sessualità, che porta a derive evidenti, pratiche e teoriche, come nelle teorie più radicali del gender. In tale contesto è decisivo sottolineare come l’identità sessuale abbia sempre una qualità relazionale, che nella differenza tra uomo e donna ha la cifra più evidente, e come questa trovi nella relazione coniugale la sua forma compiuta.
L’evidenza del nesso tra sponsalità e generazione significa che l’alleanza coniugale è segnata in modo originario dal desiderio del figlio. Per un verso, questi è voluto in una relazione, nella quale i due lo attendono l’uno dall’altra, come segno e frutto dell’amore reciproco. Per altro verso è evidente come non basti volere un figlio perché esso arrivi davvero, come appare anche nell’esperienza della sterilità di una coppia.
La generazione comporta una dialettica di passività e di attività. Generare significa – paradossalmente – compiere un atto in cui si riceve un dono. Ogni figlio è il «coronamento» (Gaudium et spes, n. 48) del desiderio dei coniugi, ma sempre lo trascende. Egli non è mai come i genitori lo avevano immaginato. Rimane altro da loro, mentre è il loro figlio. In questo sta il profilo teologico della procreazione come atto etico. Per i due sposi generare significa rispondere (attivamente) a un dono che li trascende. La relazione sponsale non può prescindere dal “voto” creatore (G. Marcel). Tra sponsalità e generazione c’è una correlazione virtuosa, in cui ciascun aspetto va compreso a partire dall’altro, superando ogni tipo di gerarchia funzionale.
Oltre la norma
In questa prospettiva l’enciclica non può essere ridotta alla ripetizione della norma, che pure essa enuncia. I metodi naturali sono la figura concreta dell’ingiunzione (morale), in questo caso la buona relazione sponsale e genitoriale, ma questa eccede la norma stessa. In tal modo questa non viene abolita, ma non può essere identificata con l’ingiunzione. Ci è cosi richiesto di non ridurre l’Humanae vitae a una norma, senza perderne il senso antropologico e teologico che eccede la norma stessa.
Ne deriva che non si può dire a priori che una scelta diversa dai metodi naturali sia in contrasto con la responsabilità generativa. Nei metodi naturali si dà un senso antropologico che è più del metodo stesso: esso consiste nell’esperienza di una buona relazione sponsale, includendo in essa il “voto creatore”. L’osservanza “materiale” del metodo non garantisce a priori una buona intenzionalità pratica. Così ci può essere – paradossalmente – un modo di praticare i metodi naturali che ne tradisce il senso e viceversa, ci sono situazioni coniugali in cui il metodo, per giustificati motivi, non è accessibile o praticabile o possibile e dunque una scelta differente non è a priori incompatibile con il nesso tra alleanza sponsale e generazione responsabile.
Novità nella continuità
Questa proposta antropologica e teologica, se accolta, rappresenterebbe senza dubbio una significativa novità nella secolare tradizione del magistero ecclesiastico sul matrimonio. Non sarebbe però la prima volta. Anche in questo campo, il magistero ha fatto registrare non pochi nuovi orientamenti e significativi cambiamenti. Basterebbe ricordare, all’inizio, la durissima condanna della contraccezione nella Casti connubii (1931) e le risposte del S. Uffizio (1944) che rifiutavano categoricamente la possibilità, richiesta da teologi del “personalismo”, dell’eguale importanza dei due “fini” del matrimonio, seguita poi dall’accettazione dei metodi naturali in Pio XII (1951) e infine il significativo dibattito al Concilio, che alla fine abbandonava la gerarchia dei due fini e affidava al papa la questione dei metodi per la regolazione responsabile della “paternità”.
Da qui nacque l’Humanae vitae che, al termine di un dibattito intenso ma ancora acerbo sotto il profilo teologico, abbandonava la terminologia dei fini assumendo quella personalista dei “significati”, ribadendo nel contempo la tradizione. Non si può negare che l’accettazione dei metodi naturali, consentendo a due sposi un rapporto sessuale volutamente – perché fisiologicamente – infecondo, contraddica la subordinazione dell’amore alla generazione, confermando peraltro una “svolta” già in atto al Concilio. Questi esempi mostrano come il magistero ecclesiastico abbia già accolto dei cambiamenti. Esso ha dunque sempre accettato una dialettica di continuità e discontinuità.
All’interno della continuità la discontinuità non è una rottura, eppure grazie a essa si va al di là della semplice ripetizione. Nello stesso tempo, una discontinuità senza continuità diventerebbe una contraddizione inaccettabile. Da qui la necessità di un profondo dibattito teologico. È compito della teologia pensare in modo sistematico le scelte concrete della pratica credente (intellectus fidei), senza mai prescindere dal magisterium dei pastori, che per il dono dello Spirito, assicurato da Gesù alla sua Chiesa, hanno il compito di giudicare, anche in modo definitivo, l’eventuale incompatibilità di una posizione teologica con la verità della Rivelazione.
“Naturale”
I nodi teologici implicati in un possibile cambiamento riguardano anzitutto il significato del “naturale” e della legge naturale. La legge morale non è riducibile a osservanza di una legge fisica o biologica – qui si apre l’altra grande questione della tecnica e della scienza –, ma va ripensata nel suo nesso costitutivo alla coscienza e in questo caso alla relazione coniugale e genitoriale.
Più radicalmente, è necessario ripensare il rapporto tra oggettivo e soggettivo, non riducendo – intellettualisticamente – l’oggettivo a una norma conosciuta dalla ragione e poi applicata dalla coscienza soggettiva. Anche nella tradizione teologica, l’objectum è propriamente l’atto – certo in Tommaso conosciuto dalla ragione – e questo è l’atto del soggetto, che non può essere giudicato a prescindere dalla sua storia, personale, culturale e ecclesiale. Tra oggettivo e soggettivo si dà una correlazione ermeneutica virtuosa. La norma viene così compresa nella sua valenza simbolica originaria, poiché essa si riferisce a un bene che anticipa la coscienza e le è dato nell’esperienza concreta, che essa è chiamata a interpretare. È in questo bene, anticipato nell’esperienza antropologica, che i credenti riconoscono l’anticipazione del compimento realizzato nel Vangelo di Gesù.
Le difficoltà di molti coniugi rispetto alla norma effettivamente enunciata nell’Humanae vitae e perfino l’abisso – si è parlato di “scisma” sommerso – tra la prassi dei fedeli e il magistero ecclesiastico, con il silenzio più o meno imbarazzato dei pastori, potrebbero dunque diventare un’occasione feconda, che sollecita la teologia morale non certo a facili adattamenti alle mode, ma a raccogliere la sfida della prassi credente (sensus fidelium), per discernerla alla luce della verità della Rivelazione.
Questioni scientifiche: ma i metodi naturali lo sono veramente?
Come in molti altri ambiti di etica sessuale, spesso viene delegato alla scienza l’onere di sostenere le ragioni di eticità o meno di una prassi, fondandola su una pretesa oggettività scientifica, che a prescindere da un’ottica di fede ne sarebbe il supporto. O, quantomeno, il dato scientifico viene “confrontato” con altri inserendolo nel dibattito etico sul problema. In tal senso la vexata quaestio dei metodi naturali non fa eccezione.
Quale naturalità?
Il primo quesito che si pone riguarda la definizione stessa di metodi naturali. Cioè in cosa consisterebbe la loro “naturalità”, elemento che già terminologicamente li differenzierebbe dalla contraccezione? Molti ritengono che questo riguardi l’assenza di sostanze o dispositivi artificiali. Vi è, in questo, l’influenza di un certo “naturalismo” contemporaneo, che tende a rifiutare tutto ciò che è manipolato, chimicamente alterato, sintetico ecc. In realtà le esondazioni o le trombe d’aria sono fenomeni naturali, mentre la sofisticata artificiosità di un’incubatrice o di un letto di rianimazione salva vite umane. D’altra parte anche il coito interrotto non fa uso di alcuna sostanza ma non rientra tra i metodi naturali.
Né possono dirsi naturali, perché non vi sia nulla di artificioso in essi. Un calcolo numerico, il corretto rilievo della temperatura, l’attenta e quotidiana registrazione del muco cervicale e, in tempi recenti, anche l’utilizzazione di un costoso apparecchietto elettronico per identificare i giorni fertili non si può dire certo che denoti un’assenza di artificialità.
L’unico elemento di naturalità è dato dall’alternarsi, nella donna, di periodi di “naturale” fertilità ad altri di naturale sterilità, con l’astensione dei rapporti sessuali in questi ultimi. Tutto qui. In effetti la stessa dizione di metodi naturali difficilmente si ritrova nei trattati scientifici, che definiscono piuttosto tali metodi come metodi empirici, metodo sinto-termico, metodo del ritmo ecc.
Quale natura?
Vi è, tuttavia, una più elevata valutazione, che pur accettando le riserve delle prime definizioni, non ritiene appropriata neanche quest’ultima rileggendola in chiave antropologica. Sarebbero quindi naturali in quanto rispettosi della natura umana. Ma anche qui sorge un dilemma che è stato critico nella rilettura morale postconciliare. Di quale natura stiamo parlando? La teologia morale del passato, in ambito sessuale, distingueva gli atti secundum naturam da quelli contra naturam, identificando prevalentemente nella natura biologica dell’atto sessuale il livello di naturalità. Per certi versi la masturbazione appariva così più grave dell’adulterio.
In realtà a un’attenta lettura si cominciò a comprendere in modo più pertinente la natura umana, già tomisticamente identificata ut ratio. È la razionalità incarnata (non angelica in quanto priva di carne, né animale in quanto priva di ragione) a definire la natura della persona. Sarebbero propri dell’essere umano, quindi, i metodi naturali in quanto rispettosi della sua natura. Nonostante la pretesa nobilitazione antropologica, vi è un evidente riduzionismo biologico sottostante tale affermazione, in quanto l’innaturalità dei contraccettivi consisterebbe solo nella manipolazione del meccanismo riproduttivo, non certo in un’offesa alla dignità della natura umana che sarebbe assolutamente incomprensibile.
Ma sia in un’accezione riduzionisticamente biologica che in una più spiccatamente antropologica, viene da chiedersi se sia naturale – cioè rispettosa del biologico e del razionale al tempo stesso – una quotidiana osservazione di sé stessi (spesso giustificata da una, poco comprensibile, “conoscenza del proprio corpo”) o l’ossessiva misurazione della temperatura, l’ansia dovuta al costante rischio dell’errore la cui colpa ricadrebbe tutta su un’incapacità della donna e non sulla rottura di un profilattico o l’involontaria dimenticanza di un pillola.
Un’ultima accezione, infine, è quella relativa alla natura della relazionalità sessuale che, si ritiene, non venga alterata o manipolata in alcun modo. Ma anche questa visione è discutibile. La relazionalità sessuale, infatti, non è fatta solo di pura fenomenologia coitale, ma anche di un intero universo libidico sul quale l’uso dei metodi naturali influisce in vario modo.
Proprio parlando di sessualità della coppia è importante considerare il salto qualitativo che esiste tra il sesso animale e quello umano. Entrambi sono condizionati da una componente istintuale, ma il primo ne è totalmente dipendente ed è di tipo esclusivamente periodico, in rapporto alla fase estrale della femmina, che la rende idonea all’accoppiamento e lancia segnali olfattivi e comportamentali al maschio. Nella coppia umana, invece, le componenti non sono esclusivamente istintuali, bensì queste sono filtrate ed elaborate da componenti psicologiche quali le variabili del desiderio, il gioco della seduzione, le componenti estetiche, visive, ambientali, circostanziali ecc. Sono queste a determinare la volontà di accoppiamento, non il giorno del calendario o la temperatura corporea che, paradossalmente, andrebbero “consultati” prima di potersi accoppiare. La sessualità umana, con i metodi naturali, regredirebbe divenendo periodica come quella dell’animale.
Quale innocuità?
Tra le varie ragioni etiche erroneamente a sostegno dei metodi naturali c’è la loro innocuità. Dico erroneamente sotto un duplice aspetto.
Il primo è relativo alla ragione etica in quanto tale. Le argomentazioni del magistero non sostengono la loro esclusiva liceità in ragione della loro innocuità, ma per altre motivazioni (che esulano da questo articolo); e d’altra parte vi sono numerosi altri interventi “non innocui” assolutamente leciti, purché vi sia una ragione proporzionata tra rischi/danni e benefici. Basti pensare ai trapianti d’organo o a un’amputazione terapeutica.
Il secondo, come accennavo prima, è che spesso l’innocuità dei metodi naturali viene valutata solo sul piano dei possibili danni fisici, per di più a confronto con quelli dei contraccettivi. In realtà anche nei metodi naturali vi sono numerosi elementi di non innocuità. Primo tra tutti l’ansia derivante dal timore di una gravidanza e dall’attesa del fatidico arrivo della mestruazione; la possibile colpevolizzazione per non avere saputo riconoscere chiaramente i segni della fertilità; le difficoltà nel rapporto sessuale. Un altro elemento da tenere presente è l’interferenza con la spontaneità, atteggiamento assolutamente fondamentale nella psicologia della relazione sessuale che, con i metodi naturali, viene frustrato dagli imperativi derivanti da una temperatura corporea, da un giorno di calendario, dalla presenza di un certo tipo di muco. Non solo, ma in caso di pochi giorni disponibili per i rapporti a motivo di diverse contingenze esistenziali, si potrebbe avere una sorta di “corsa al rapporto” per utilizzare quel ridotto periodo di tempo.
Indubbiamente, sul piano della fisicità, alcune forme di contraccezione sono gravate da possibili effetti collaterali – ovviamente assenti nei metodi naturali –, ma anche questi sono spesso enfatizzati per valorizzare l’innocuità di questi ultimi. In una più serena e oggettiva valutazione scientifica, per limitarci ai metodi più diffusi, l’odierna contraccezione estroprogestinica (la classica “pillola”) ha eventi avversi poco frequenti (in generi evitati o gestiti da un periodico controllo medico), il profilattico non presenta effetti collaterali significativi, l’interferenza psicologica del coito interrotto è modesta (anche perché da sempre e ubiquitariamente utilizzato senza avere un’umanità frustrata).
Concludendo, se un contributo al dibattito può dare la scienza non è certo a favore di un primato morale o di un’innocuità biologica dei metodi naturali quanto piuttosto: il supporto a superare un certo determinismo biologico a cui Dio legherebbe il suo atto creativo (inserendolo in una complessa e artificiosa gestione dei giorni non fertili); la valorizzazione delle componenti psicologiche insite nella spontaneità e nella genesi delle pulsioni libidiche; una migliore comprensione della relazionalità sessuale e del suo rispetto nell’elaborazione della norma morale.
I metodi naturali: norma o stile di vita?
All’avvicinarsi del 50° anniversario dalla sua promulgazione, e nel contesto del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, l’enciclica Humanae vitae assume nuovamente una rilevanza importante. Il trascorrere del tempo ha mostrato come il beato Paolo VI abbia avuto una visione molto più esatta della realtà rispetto ai suoi critici. La banalizzazione della sessualità, conseguenza della rivoluzione sessuale di quegli anni, è un fenomeno esteso di cui si fanno portavoce persone completamente aliene al cristianesimo, come il coreano Byung Chung Han.
Un’enciclica ricca di significato
Certamente l’enciclica non riflette solo sul valore culturale della sessualità umana nel suo tempo, ma aveva avuto anche l’incarico esplicito dal Concilio di offrire una norma relativa alla contraccezione nel matrimonio, che necessitava di una revisione dovuta alla novità rappresentata dall’apparizione degli antiovulatori. Essendo una richiesta giunta da un Concilio, questo valore normativo aveva un’importanza speciale. Qualsiasi valutazione dell’enciclica che ignori questo fatto incorre in un grave anacronismo. Il modo in cui la Gaudium et spes si riferisce a questo tema dà per scontata una successiva dichiarazione normativa da parte del magistero legittimo. Lo stesso Paolo VI inizierà il testo indicando le ragioni della legittimità del magistero per quanto riguarda la legge naturale (n. 4).
Questo è rilevante per non proiettare sull’enciclica categorie posteriori, che non le corrispondono e non le appartengono. La norma che Humanae vitae emette parte dalla convinzione che è compito del magistero della Chiesa farlo – dato che era stato implicitamente riconosciuto dal Concilio. Questo presupponeva l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi. La norma non solo segnalava atteggiamenti generici circa il rispetto della vita e il ruolo della generazione nella stessa, ma anche implicazioni chiare relative all’atto coniugale.
Cronologicamente si osserva che fu la pubblicazione dell’Humanae vitae a condurre numerosi moralisti a negare le due premesse anteriori. In questo ordine: dapprima essi negarono la pertinenza della norma con la rivelazione che, pertanto, non avrebbe potuto essere oggetto di un pronunciamento autenticamente magisteriale. In un secondo momento essi rigettarono l’esistenza degli atti intrinsecamente cattivi, sostenendo che le norme morali sono indicazioni che aiutano le persone, ma che, essendo esse generali, non obbligano in tutti i casi concreti.
Il dibattito posteriore è stato molto ricco e raggiunge il suo vertice con l’enciclica Veritatis splendor. Pertanto qualsiasi modo di analizzare la Humanae vitae senza tener conto di queste discussioni e delle successive dichiarazioni magisteriali è un metodo contrario al più elementare rigore teologico.
Questo significa avere rispetto della Humanae vitae in due sensi:
1. La relazioni esistente tra la norma morale e lo stile di vita.
2. L’esistenza di norme morali relative alla sessualità umana.
Il valore morale della norma
Una delle dichiarazioni più luminose seguite all’Humanae vitae fu quella di Servais Pinckaers quando si riferisce ai fondamenti della moralità che non furono affrontati durante il Concilio. Nel suo libro Le fonti della morale cristiana (1985; tr. it. 1992) segnalò la radicale differenza di comprensione della norma nel nominalismo e nella tradizione rappresentata da sant’Agostino e da san Tommaso. I due santi dottori non misero mai in opposizione norma e stile di vita, poiché il contenuto della legge morale ha che fare con la felicità, che è la ragione profonda della norma. Il concetto di una norma come espressione astratta di un’autorità che desideri legare la volontà del suddito non corrisponde alle esigenze basiche della morale cristiana.
La posizione tommasiana si fonda sulla valorizzazione massima della capacità della ragione umana di percepire la verità pratica, ovvero il senso reale degli atti umani nella loro relazione con la vita come un tutto. Questo significa che la norma morale è la miglior difesa di uno stile di vita. È lo stile di vita che richiede l’esistenza della norma per non deformarsi.
Già Aristotele aveva sviluppato il concetto di razionalità pratica, in cui si esplicitava l’eticità delle azioni a partire dalla loro intenzionalità, che non è tecnica (non termina in un’opera esterna), ma morale (il suo oggetto è la bontà della persona che agisce).
La centralità che lo Stagirita dà alla relazione dell’atto con la felicità è tale che egli non considerò possibile che le norme, per quanto giuste, possano definire in modo completo la moralità degli atti concreti. La vita felice, verso cui devono dirigersi gli atti virtuosi, deve incontrare cammini che in ogni momento potrebbero raggiungere il grado maggiore di felicità. Egli non considerò possibile l’esistenza di atti concreti sempre cattivi.
La recezione cristiana del pensiero aristotelico assunse la questione della razionalità pratica e il valore intenzionale, e non meramente fisico, degli atti; tuttavia, di contro, rigettò la conclusione della non esistenza di questi atti intrinsecamente cattivi: “Philosophus errat”. Il motivo della differenza su questo punto è il nuovo concetto di felicità che il cristianesimo incorpora e che si radica nell’alleanza con Dio, che può spezzarsi a causa di un atto di infedeltà. In questo modo è possibile che un atto spezzi la sua relazione con l’Alleanza e interrompa l’autentica felicità che deve essere definita come una vita in comunione.
Paul Beauchamp ha chiarito come il concetto biblico di legge sia inseparabile dall’Alleanza e pertanto la legge biblica non è l’imposizione di una volontà ma la direzione di un cammino. La Pontificia commissione biblica lo conferma affermando: «Si vede dunque che la morale è molto più che un codice di comportamenti e atteggiamenti. Essa si presenta come un “cammino” (‘derek’) rivelato, regalato: Leitmotiv ben sviluppato n el Deuteronomio, presso i profeti, nella letteratura sapienziale e nei salmi didattici» (Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, n. 20).
Una posizione dialettica – o norma o stile di vita – non corrisponde quindi alla logica interna della moralità cristiana che, in quanto cammino, è uno stile di vita che richiede una norma. La verità narrativa della vita umana, che ha un fondamento biblico molto chiaro, passa attraverso la verità di un amore che include in sé la normatività. Dal punto di vista cristiano è il dono dell’amore che fonda i comandamenti: «Il comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia dell'uomo. […] In tal modo il dono si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono» (Evangelium vitae, n. 52).
Lo sviluppo della teoria dell’oggetto morale, di grande interesse teologico, servì per classificare questa profonda unità poiché fu capace di determinare il bene morale oggettivo in una specifica azione, senza cadere né nel fisicismo del bene considerato solo come il risultato di un’azione, né nel soggettivismo di una mera intenzione generale. La verità intenzionale dell’agire umano permette di inserirsi nella correlazione esistente tra entrambi i poli che è il bene stesso della azione. Un furto non è scorretto per quello che si ruba o per la cattiva intenzione – può essere che si rubi per motivi altruistici –, ma per l’azione di appropriarsi di ciò che appartiene ad altri. Questo non si determina a partire da un osservatore imparziale ma «per poter cogliere l’oggetto di un atto che lo specifica moralmente occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti, l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto» (Veritatis splendor, n. 78).
L’esistenza di norme relative alla sessualità umana
Lo stesso riferimento che fa la Veritatis splendor all’Humanae vitae ha lo scopo di scoprire in essa il valore della norma che specifica un atto intrinsecamente malvagio. Si salva così l’obiezione di fisicismo che si alzò contro questa enciclica. Già Karol Wojtyla, nello scritto che inviò a Paolo VI in preparazione dell’enciclica, chiariva questo tema in modo personalista. Solo a causa dell’ignoranza del processo di redazione dell’enciclica la si può accusare di cadere in un naturalismo biologicista.
L’unità profonda del corpo e dell’anima della condizione umana, che si esprime specialmente nella dinamica dell’affettività, è una luce imprescindibile per vincere o il dualismo radicale di un approccio dualista kantiano, che sempre è stato particolarmente cieco relativamente alla verità della sessualità, o del teologismo anglosassone, che lo vede in forma utilitaristica. Si apprezza così l’importanza della posizione che l’Humanae vitae assunse contro questi due sistemi etici che erano preponderanti negli anni Sessanta. Il modo culturale attuale di comprendere la sessualità è molto miope a causa di un emotivismo radicale sorto da una coniugazione frammentata dei due sistemi etici che abbiamo menzionato. Si è giunti all’estremo di estendere l’idea secondo cui solamente la violenza potrebbe essere un uso illecito della sessualità.
Si deve proporre un principio di integrazione personale e naturale in questo ambito: «si può leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana» (Veritatis splendor, n. 50).
La terminologia dell’Humanae vitae concorda con questo poiché parla di significati della sessualità. Si riferisce a «i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo» (n. 12). In questo modo: così come è facile comprendere l’immoralità di un atto imposto al coniuge, anche se inserito in una retta vita coniugale, ugualmente lo stesso atto, che privi del significato procreativo la relazione intima, sarà disonesto. Il valore personalista di questa concezione fu dichiarato da Giovanni Paolo II a partire da una lettura cosciente e responsabile di questi significati: «In tal modo, l’“intima struttura” (ossia natura) dell’atto coniugale costituisce la base necessaria per un’adeguata lettura e scoperta dei significati, che devono trasferirsi nella coscienza e nelle decisioni delle persone agenti» (Udienza generale, 11.7.1984).
I metodi naturali e lo stile di vita
La liceità di quelli che sono chiamati metodi naturali della regolazione della natalità non nasce quindi da un timore nei confronti dell’artificiale, ma dal rispetto del valore morale dei significati della sessualità. Non sono buoni in quanto “naturali”, sono leciti perché si fondano in uno sguardo responsabile circa la sessualità umana. Non interferiscono sull’atto coniugale ma riconoscono il valore della sessualità. Sarebbe per questo più conveniente chiamarli “metodi di conoscenza della fertilità”, poiché in tal modo specifica meglio il loro contenuto.
Per questo, lo stesso insegnamento di questi metodi, che si basa sulla conoscenza della sessualità nel dialogo reciproco, non può essere ridotto agli aspetti tecnici della biologia, ma deve portare alla sapienza del valore umano della sessualità. Essi permettono la lettura attenta del linguaggio del corpo e dei significati insiti alla condizione sessuale umana. In essi, ogni volta sempre più, si comunica un autentico stile di vita che trova luce nel rispetto della norma indicata dall’Humanae vitae dentro la visione integrata della sessualità di cui abbiamo parlato prima. Questa è la saggezza reale che l’enciclica del beato Paolo VI ha desiderato trasmettere.
I metodi naturali: norma o stile di vita? / 2
Non c’è dubbio: il magistero romano
intende il divieto dei metodi di contraccezione cosiddetti artificiali in senso
normativo. Paolo VI dichiara nell’Humanae
vitae che debba essere “esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto
coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze
naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione
[…]. È quindi errore pensare che un atto coniugale, reso volutamente infecondo,
e perciò intrinsecamente non onesto, possa essere coonestato dall’insieme di
una vita coniugale feconda” (n. 14).
L’argomentazione è di carattere giusnaturalistico, il papa rimanda infatti alle norme della legge naturale, secondo la quale vi si trova una “connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo” (n. 12). Il magistero romano non cessa di sottolineare fortemente l’unione inscindibile tra l’amore coniugale e la trasmissione della vita. Tuttavia realisticamente bisogna costatare che questa dottrina ha sollevato fino a oggi molte difficoltà e che da parte della stragrande maggioranza dei fedeli non viene riconosciuta nella sua dimensione positiva.1 Questo spesso impedisce di valutare l’uso dei metodi naturali in una prospettiva integrale, il loro significato in senso etico-sociale e sul piano della vita matrimoniale per la coppia stessa. Non si rende giustizia alla dottrina della Chiesa se essa viene letta esclusivamente in prospettiva etico-normativa.
I metodi naturali
Papa Benedetto XVI nel libro-intervista Luce del mondo ribadisce che “la regolazione naturale delle nascite non è unicamente un metodo, ma un cammino, perché presuppone che i coniugi abbiano tempo l’uno per l’altro, che si viva una relazione che dura nel tempo”.2 Già il dottor Josef Rötzer (1920-2010), che a partire dagli anni ’60 ha studiato e sviluppato con sempre più accuratezza il metodo sintotermico per la regolazione naturale della fertilità, ha sottolineato fin dall’inizio delle sue ricerche scientifico-mediche che la regolazione naturale non rappresenta soltanto un metodo, ma piuttosto l’espressione di uno stile di vita matrimoniale.
Per elaborare la prospettiva dei metodi naturali per la regolazione delle nascite come via e stile di vita matrimoniale, devono essere approfondite tre questioni: (1) il contesto etico-sociale e politico dell’enciclica Humanae vitae, (2) la percezione personalistica della sessualità e dell’atto coniugale, (3) l’impatto concreto che l’uso del metodo naturale può avere sulla vita relazionale di una coppia.
1) Per capire il contesto etico-sociale e politico dell’Humanae vitae si deve considerare il lungo e complesso processo della sua genesi,3 che ebbe inizio nel marzo 1963, quando Giovanni XXIII costituì una Commissione incaricata di studiare i problemi della popolazione, della famiglia e della natalità. Oltre alla questione della valutazione morale dei metodi contraccettivi, ci si chiedeva innanzitutto come affrontare la crescita demografica a livello mondiale. Alla base c’era anche il timore giustificato che i paesi industrializzati avrebbero vincolato i loro aiuti ai paesi in via di sviluppo attraverso programmi di limitazione delle nascite con l’imposizione di metodi contraccettivi. La risposta da parte della Chiesa attraverso l’Humanae vitae fu un deciso no all’intento di legare i programmi di aiuto a una forzata limitazione delle nascite, sostenendo in modo chiaro e deciso la libertà di procreazione delle famiglie nei paesi in via di sviluppo. L’enciclica Humanae vitae veniva infatti recepita con favore nella stragrande maggioranza dei paesi africani.
2) Il secondo aspetto riguarda la percezione personalistica della sessualità e dell’atto coniugale. L’allora card. Karol Wojtyla, un difensore veemente della valenza normativa dell’Humanae vitae, in un commento all’enciclica, pubblicata su L’Osservatore romano il 5 gennaio 1969, riconobbe tuttavia che l’argomentazione giusnaturalistica era da integrarsi con quella personalistica.
Questa visione, che supera la lunga tradizione della percezione biologistica e funzionalistica della sessualità e dell’atto coniugale, riconosce che l’atto sessuale è sempre integrato nel matrimonio, che è intima comunità di vita e d’amore coniugale (cf. Gaudium et spes 48). L’intima unione non ha come primo scopo la procreazione, ma è anche mutua donazione di due persone che si amano. Più tardi il magistero intenderà la sessualità e l’intima unione come linguaggio del corpo attraverso il quale gli sposi si comunicano a vicenda il loro amore e la loro donazione totale.
Afferma Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio: “Quando i coniugi, mediante il ricorso alla contraccezione [artificiale, nda], scindono i due significati che Dio creatore ha inscritti nell’essere dell’uomo e della donna e nel dinamismo della loro comunione sessuale, si comportano come ‘arbitri’ del disegno divino e ‘manipolano’ e avviliscono la sessualità umana, e con essa la persona propria e del coniuge, alterandone il valore di donazione ‘totale’. Così, al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei coniugi, la contraccezione oppone un linguaggio oggettivamente contraddittorio, quello cioè del non donarsi all’altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all’apertura alla vita, ma anche una falsificazione dell’interiore verità dell’amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale” (n. 32).
In questa prospettiva antropologica la contraccezione artificiale viene interpretata come una forma di “menzogna”. L’espressione corporea della propria donazione totale e dell’accettazione piena e mutua dei partner viene frammentata: la capacità maschile di generare ossia quella femminile di concepire vengono escluse e rigettate.
(3) Infine è da considerasi l’impatto concreto che l’uso del metodo naturale può avere sulla vita relazionale di una coppia. Lasciando da parte considerazioni sull’effettiva possibilità di tutte le coppie a seguire questo metodo (per motivi medici o personali), molte coppie che seguono questa via testimoniano i suoi effetti positivi, menzionati anche nella Familiaris consortio: “La scelta dei ritmi naturali comporta l’accettazione del tempo della persona, cioè della donna, e con ciò l’accettazione anche del dialogo, del rispetto reciproco, della comune responsabilità, del dominio di sé. Accogliere poi il tempo e il dialogo significa riconoscere il carattere insieme spirituale e corporeo della comunione coniugale, come pure vivere l’amore personale nella sua esigenza di fedeltà. In questo contesto la coppia fa l’esperienza che la comunione coniugale viene arricchita di quei valori di tenerezza e di affettività, i quali costituiscono l’anima profonda della sessualità umana, anche nella sua dimensione fisica” (nr. 32). Ciò emerge soprattutto se si parla della regolazione naturale delle nascite non unicamente come metodo, ma come un cammino, uno stile di vita matrimoniale.
Interrogativi aperti
Riconoscendo senz’altro “la ricchezza di sapienza contenuta nell’Humanae vitae”,4 che in questo contributo abbiamo voluto evidenziare a tre livelli, rimane tuttavia aperta una grande sfida, cioè quella che s’interroga sui suoi rispettivi valori e obiettivi, eticamente senz’altro legittimi e desiderabili: possono essi essere realizzati e tutelati solamente attraverso una condanna senza eccezione alcuna dei metodi artificiali per la regolazione delle nascite, ossia attraverso un’interpretazione rigida ed esclusivamente etico-normativa della rispettiva dottrina della Chiesa?
La criteriologia per la valutazione etica dei rispettivi metodi deve essere comunque completata con il riconoscimento della libertà di coscienza dei partner5 e con la tutela della loro salute, in modo particolare della donna. Il Sinodo tedesco di Würzburg del 1975 sintetizzò in proposito: “Il metodo usato non può […] offendere moralmente nessuno dei due coniugi oppure limitarlo nella sua capacità di amare.”
1 Cf. l’Instrumentum laboris della IIIa Assemblea generale straordinaria dei vescovi, Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione (2014), n. 123-125.
2 Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Vaticano 2010, 206.
3 Vedi M.M. Lintner, Humanae vitae: eine genealogisch-historische Studie, in J. Ernesti (a cura di), Paolo VI e la crisi postconciliare. Giornate di studio a Bressanone, 25–26.2.2012 [= Pubblicazioni dell‘Istituto Paolo VI., vol. 32], Brescia 2013, 16–53.
4 Cf. l’Instrumentum laboris della XIVa Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo (2015), n. 137.
5 Cf. ivi, n. 137: “Tenendo presente la ricchezza di sapienza contenuta nella Humanae vitae, in relazione alle questioni da essa trattate emergono due poli da coniugare costantemente. Da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana. Quando prevale il riferimento al polo soggettivo, si rischiano facilmente scelte egoistiche; nell’altro caso, la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona. La coniugazione dei due aspetti, vissuta con l’accompagnamento di una guida spirituale competente, potrà aiutare i coniugi a fare scelte pienamente umanizzanti e conformi alla volontà del Signore.”
La figura della legge naturale
Nell’Humanae vitae
due espressioni racchiudono nel modo più chiaro la posizione di Paolo VI sul tema
della legge naturale. Al n. 13 si afferma che la condanna morale della pillola
aiuta i coniugi a «riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma
piuttosto ministri del disegno stabilito dal creatore» e più avanti, al n. 16, si
specifica la differenza tra metodi naturali e pillola: «Nel primo caso i
coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro
caso essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali».
Un appello al naturale
Tali affermazioni, pur tra le molte obiezioni che sono state mosse e possono essere ancor oggi fatte valere, segnalano un’evidenza di senso comune: l’uomo non si dà lui stesso la vita, né questa origina da lui. Per tale ragione non gli è lecito servirsene come fosse cosa sua. Nel caso della vita nascente, ad esempio, non esiste ancora un soggetto capace di rivendicare dei diritti, e tuttavia ciò non legittima altri soggetti ad agire come se quella vita fosse cosa propria. Essa va trattata, invece, come se fosse già posseduta da qualcuno.
L’embrione ottenuto grazie alla fecondazione assistita va anch’esso considerato come già posseduto da qualcuno, per il quale i modi di porlo in vita non saranno indifferenti. Anzi, l’artificio posto in essere da chi lo ha voluto risulterà il più radicale dei condizionamenti, e lo sarà per il semplice motivo che ai “processi naturali” si è sostituito il volere di altri soggetti.
L’appello al “naturale” ha dunque ancor oggi il senso di segnare il limite dell’agire umano, ma in modo più radicale del passato. Se nel caso della pillola il confine tra “naturale” e “artificiale” voleva difendere il legame tra atto sessuale e procreazione, oggi il confine riguarda il rapporto dell’uomo con la vita stessa, con il nascere e il morire.
Oltre a ciò, l’appello al “naturale” riguarda anche il sentimento di gratuità e gratitudine. Là dove la vita sia ritenuta un fatto casuale, manipolabile a piacimento, svanisce il senso del dono e del mistero. Si afferma un dispotismo strumentale verso la vita, che appartiene a una mentalità che guarda solo al presente ed è chiusa in se stessa, come afferma l’enciclica Laudato si’.
Una visione sacrale?
Tuttavia da più parti si ribaltano la tesi qui esposte, vedendo nell’appello al “naturale” il retaggio di una visione sacrale della natura che assoggetta la libertà umana al dato di fatto biologico, contraddicendo la vocazione umana all’umanizzazione del mondo naturale. Si sostiene sia disumano opporre l’istanza del rispetto della natura all’aspirazione alla genitorialità, in quanto si conferisce maggior valore ai fatti biologici che alle aspirazioni umane. Con Kant l’obiezione potrebbe essere formulata in questi termini: buona o cattiva può essere solo la volontà, non la natura.
Già fin d’ora, tuttavia, appare chiaro almeno un difetto di tale argomentazione: essa guarda alle aspirazioni dell’adulto presupponendo che possano risultare accettabili alla persona che verrà al mondo.
La riflessione teologica in merito a tali questioni ha dovuto riconoscere l’ingenuità di una tradizione che ha pensato l’atto creativo di Dio in senso materiale, facendo perciò dei fatti di natura una sorta di vincolo religioso e morale. Ha quindi dovuto ripensare l’impianto della dottrina cattolica in una prospettiva antropologica, a procedere dall’insuperabile mediazione soggettiva di ogni conoscenza umana. D’altro lato, però, si ricomincia oggi a considerare il fatto che l’ambiente naturale e le stesse condizioni biologiche dell’essere umano hanno valore morale in quanto esse stesse mediano il darsi del soggetto e della sua rete di relazioni. A seguito di ciò, il rapporto con il “dato naturale” non può essere solo di tipo strumentale, perché concorre a determinare il senso del vivere umano o del “passaggio su questa terra” di noi uomini, come dice l’enciclica già citata (Laudato si’, n. 160).
Dopo aver recuperato il nesso sostanziale tra natura e soggettività, certamente non estraneo alla sua tradizione, la teologia deve dunque oggi misurarsi con un’ipertrofia della soggettività umana, la quale è divenuta tanto dispotica verso il dato naturale, quanto “spiritualizzata”. Se ritengo, infatti, indifferente “fare” il figlio con il coniuge o con il seme di un altro uomo, con il mio utero o quello di un’altra donna, significa che il mio e altrui corpo lo ritengo solo uno strumento produttivo che non ha legami sostanziali con il senso della mia vita, delle mie scelte e delle mie relazioni. In forza di tale “spiritualizzazione” della persona, si pensa che l’amore genitoriale non possa essere in alcun modo intaccato dai modi con cui ho avuto il bambino e dai suoi legami con i genitori biologici.
Una soggettività autoreferenziale?
L’autoreferenzialità della soggettività può però pensare di inglobare l’appello all’amore, ma non può inglobare quella “datità” della vita che finisce per essere l’unico vero “altro da sé” che oggi resiste a un amore che s’impone a coloro che si vogliono amare. Datità significa “dono”, genitorialità, ma significa anche “dato”, condizione che nessuno ha volontariamente determinato, e in forza di tale fatto custodisce la prima e fondamentale parità tra gli esseri umani e il senso di gratuità del vivere. L’appellativo “madre terra” proposto dall’enciclica di papa Francesco richiama a tale legame tra la gratuità della vita e le condizioni naturali del suo nascere.
Il diritto-dovere dell’amore non legittima dunque un atteggiamento arbitrariamente manipolatorio nei confronti del proprio e altrui corpo, specialmente là dove sono in gioco i processi riproduttivi.
L’argomentazione morale così posta in essere fa leva sulla corrispondenze tra la norma e le istanze morali insite nell’esperienza comune. Dette istanze possono in una certa misura essere osservate e descritte da un osservatore esterno, e insieme possono essere “narrate” dall’interessato, in quanto appartenenti al suo vissuto. La riflessione sulla comune esperienza fa vedere tale corrispondenza, a patto però che rimanga uno spazio alla riflessione e che non sia invece soffocata da pressioni ideologiche e da scelte legislative che astrattamente le ratificano, occupando il posto che spetta alla decisione politica.
L’elemento innovativo di tale modo di argomentare la norma morale sta nel concepire in senso pratico il soggetto stesso, superando un attivismo intellettualista, da un parte, e la passività emotivista dall’altra. Il soggetto non può presupporre se stesso – né ragione né affetti né alcun altra facoltà o qualità – all’atto mediante il quale egli risponde al senso che lo interpella e, rispondendovi, accede alla propria identità.
In tal senso, la soggettività umana altro non è che l’accadere di un atto e di un volere o di una decisione; è capacità di disporre di sé posta in essere grazie ad altro da sé e questa alterità è a sua volta una persona “in carne e ossa”.
Corporeità
Ogni agire dell’io in qualche misura anticipa dunque l’io stesso, in modo tale che non è errato parlare di una soggettività del corpo, con la quale si vuol affermare l’intima appartenenza dell’io al corpo e viceversa.
La qualificazione umana o soggettiva del corpo è stata plausibilmente fatta valere per differenza rispetto all’oggettivazione empirica sviluppata dalle scienze moderne. A seguito di tale operazione, il “corpo-proprio” del soggetto è però stato visto fondamentalmente come il corpo-sentimento, mentre il corpo dei medici o dei biologi è divenuto il corpo puramente funzionale, fatto di processi biologici e di organi, astratto dal vissuto soggettivo. In ciò è presente una riduzione della mediazione corporea dell’atto umano.
L’interpellazione che risveglia il soggetto a se stesso e alla propria esistenza è certo la parola detta da altri soggetti, ma anche le «tante parole» racchiuse nel fenomeno della vita, nella natura e nel proprio corpo: «Dai più ampi panorami alla più esili forme di vita, la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza. Essa è, inoltre, una rivelazione continua del divino» (Laudato si’, n. 85).
Al vissuto umano – al “corpo-proprio” – appartengono dunque anche i connotati prettamente somatici della persona e le funzioni esteriori, o biologiche, del suo corpo. Esse mediano il processo di identificazione del soggetto, le sue relazioni e le pratiche sociali. La differenza dei sessi, ad esempio, ha una rilevanza psicologica, sociale e morale che solo un’ostinata e pervasiva forzatura ideologica può oscurare, pretendendo di sostituire alla tradizionale educazione alla differenza, una pedagogia dell’indifferenza.
Il corpo appartiene dunque all’io anche nella sua funzionalità biologica, la quale non va subito e comunque ascritta a un’oggettivazione strumentale del corpo, ma concorre alla determinazione del senso dell’agire. La funzione sessuale occupa un posto di primissimo piano in tale mediazione del senso dell’agire.
In tal senso, il riferimento a ciò che ogni soggetto è “per natura” si ripropone oggi con forza sul piano della riflessione antropologica e insieme morale.
Famiglia e Chiesa: un legame indissolubile
In questo contributo ci proponiamo di
accostare il dibattito recente sull’Humanae
vitae attraverso la recensione del recente testo sorto all’interno di un
seminario teologico internazionale promosso dal Pontificio consiglio per la famiglia
pubblicato dalla LEV: A. Bozzolo, M.
Chiodi, G. Dianin, P. Sequeri, M. Tinti, Famiglia e Chiesa, un legame indissolubile. Contributo
interdisciplinare per l’approfondimento sinodale, LEV, Città del Vaticano
2015.
Un dibattito e un testo
Il volume raccoglie i risultati di un seminario di studio su alcune delle più rilevanti questioni concernenti la pastorale della famiglia. Il gruppo di circa quaranta studiosi che ha dato vita all’approfondimento interdisciplinare è stato convocato da mons. Vincenzo Paglia, coadiuvato da uno specifico comitato scientifico, cercando di garantire tanto l’interdisciplinarietà quanto la dimensione internazionale delle voci. La struttura del volume ruota attorno alle tre sessioni principali («Matrimonio: fede, sacramento, disciplina», «Famiglia, amore sponsale e generazione» e infine «Famiglia ferita e unioni irregolari: quale atteggiamento pastorale»). Completa il volume una quarta sezione dal titolo «Orientamenti e prospettive».
Il testo è particolarmente significativo per questo «Dialogo», dal momento che la seconda parte del volume, dal titolo «Famiglia, amore sponsale e generazione», è espressamente dedicata al tema in questione (pp. 155-299) e che nella sezione «Orientamenti e prospettive» un intero capitolo è dedicato al tema del matrimonio e della generazione (pp. 509-522). Vista la natura di questa nostra breve presentazione ci soffermeremo specificatamente su queste due parti del volume, sebbene, come in un’opera polifonica, la bellezza e l’armonia dell’esecuzione siano percepibili pienamente solo nell’intreccio e nel continuo rimando delle diverse voci.
Un focus su Humanae vitae
La parte del testo che vogliamo analizzare, a partire da questo sfondo generale, presta una specifica attenzione all’Humanae vitae e alle sue problematiche teologico-morali, senza nasconderne alcuni elementi giudicati come critici. Senza remore il testo si chiede, tra l’altro, se l’imbarazzo e la latitanza di molti pastori di fronte a una prassi generalizzata di molti coniugi cristiani lontana dall’indicazione dell’enciclica, «potrebbe non esprimere necessariamente un’ignavia, una debolezza o una facile via di fuga, ma segnalare un divario tra prassi e teoria, caratterizzato da una sorta di doppia verità morale, l’una oggettiva e l’altra soggettiva, che chiede di essere pensato fino in fondo» (p. 520).
L’importanza del testo in questione è sottolineata anche dall’ampia presentazione che dello stesso ha fatto La Civiltà cattolica (2015/III, 426-436) a firma di Humberto Miguel Yañez. Il gesuita argentino nota come le questioni morali connesse al matrimonio (espresse dai contributi di Chiodi alle pp. 155-202 e 509-523) siano da comprendersi nell’attuale contesto postmoderno per poter valorizzare l’insegnamento della Chiesa che, recepito l’amore coniugale come costitutivo del matrimonio, si fonda sul nesso tra amore e fecondità compreso alla luce di una legge naturale inscritta nella biologia del corpo.
Appare evidente dalla lettura del contributo in questione come la piena comprensione di questa norma sia possibile solo se la si inserisce all’interno del principio personalistico dell’amore coniugale e della paternità responsabile. Solo così si potrà superare una visione riduttiva della sessualità aprendosi alla sua «valenza simbolica (etico-antropologica e teologica), che eccede il corpo fisico» (p. 167). Il termine ultimo di questo processo porterà l’eros a integrare l’autocomprensione di sé e l’esercizio della libertà personale nella dimensione costitutivamente relazionale, la cui autentica espressione è il rapporto eterosessuale.
La prospettiva personalistica presente nell’enciclica di Paolo VI pone la comprensione dell’atto coniugale all’interno di un orizzonte composto tanto dalle domande di senso quanto dalla progettualità delle persone coinvolte in esso. Per questo la valutazione dell’autentica apertura alla vita «non potrebbe ridursi a questione di “metodo”, ma deve riferirsi all’intenzionalità della coppia, la quale, nel coltivare un vero amore coniugale, dovrà discernere tutti gli aspetti e le condizioni che vi concorrono. Si valuterà certamente il metodo, ma soprattutto i criteri che rendono l’atto coniugale più adatto a esprimere l’amore coniugale e, quando occorra, la fecondità, la fecondità, la quale va distinta dalla mera fertilità» (Yañez, p. 431).
Un secondo tema che emerge dal testo che presentiamo (p. 513 e seguenti) è come la tradizione morale cattolica non abbia mai separato la comprensione della legge morale dalla coscienza, evitando tanto un’unilateralità della legge – anticipazione di ogni rigorismo morale che allontana i credenti dalla Chiesa – quanto una coscienza ridotta a mera astrazione formale o allo strumento operativo di un individualismo libertario.
Un terzo centro di gravità che anima le pagine del testo composte da Chiodi è il pregevole tentativo di chiarire il concetto di natura umana, liberandolo da una serie di ambiguità che lo accompagnano. Solo mostrando l’intrinseco legame che la natura umana ha con la libertà, con una sua comprensione storica sempre culturalmente mediata, si potrà rendere questo concetto scevro di ogni componente ideologica e in grado di illuminare il rapporto tra coscienza e norma.
Il cammino sinodale
Queste brevi luci sul testo ci permettono allora di comprendere il percorso intersinodale e il suo rapporto con l’Humanae vitae: il cammino sinodale vuole riavviare un dialogo di tutta la Chiesa che sappia partire dall’esperienza vissuta, riletta alla luce del Vangelo secondo un sensus fidei. Il risultato di questa operazione sarà la restituzione del messaggio profondamente profetico dell’Humanae vitae incarnato nelle situazioni concrete dei fedeli. L’alternativa non è rosea: il rischio è la riduzione dell’insegnamento morale a una morale naturalistica che fa coincidere legge biologica e legge morale o una morale intellettualistica che non sappia più discernere tra le diverse soluzioni tecnicamente possibili in termini di procreazione (cf. Yañez pp. 434-435).
L’intero volume edito dai tipi vaticani pone una domanda di fondo: alla luce del fatto che la dottrina della Chiesa registra una sua propria evoluzione, un cambiamento della disciplina deve essere sempre considerato come un cambiamento di dottrina?
Per una rinnovata profezia
La questione, di non facile risposta, trova nel testo presentato una chiave interpretativa particolarmente significativa: la consapevolezza che l’intelligenza della fede non è né un qualcosa di ancorato al passato né una realtà formata dalle opinioni, ma un esercizio di ascolto autentico teso a recepire i segni dello Spirito Santo che assiste la Chiesa e i suoi pastori. Questa forma di profezia dello Spirito è quella che deve tornare a emergere dall’Humanae vitae. Ci sembra di poter dire che il contributo del seminario internazionale di studio offra importanti elementi per assistere l’incipiente percorso che i padri sinodali stanno per compiere nel XIV Sinodo ordinario.