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Moralia Blog

Abitare diversamente | La porta di casa

In questo periodo siamo tutti «casalinghi» nel senso più vivido del termine. #iorestoacasa è un tormentone e un invito: sanitario, giuridico ma anche etico. Tutti ci troviamo a vivere degli spazi domestici in modo differente. Luoghi quotidiani che portano in sé fatiche, ritmi, relazioni diverse dall’abituale, sia per chi vive da solo, sia per chi vive con i familiari.

Questione di tempi… e di spazi

Qualche giorno fa ero al telefono con un caro amico (NB: milanesissimo!) che è sbottato: «Ero padrone degli spazi e non del tempo; ora sono padrone del tempo, ma non degli spazi». Questa affermazione mi ha provocata.

Da sempre profondamente convinta che per comprendere le «grandi questioni» non si possa prescindere dai «piccoli gesti», ho pensato di scrivere una serie di post che, proprio partendo dalla casa (dagli spazi domestici), ci possano aiutare ad abitarla già ora in un’ottica di futuro già presente e operante. Quando questo tempo finirà, dovremo abiare il mondo in modo differente: ma non lo stiamo facendo già ora?

Abitare la casa personale e abitare la casa comune sono solo due sfaccettature dell’unico «essere nel mondo, ma non essere del mondo» (cf. Gv 17).

Entrare / uscire

Parto quindi dall’inizio, da quella porta di casa che abbiamo varcato per l’ultima volta settimane fa o che varchiamo solo per esigenze essenziali e limitate.

La porta di casa è un confine: nel contempo limite e possibilità. Ci permette di «entrare» (dentro noi stessi, le situazioni, nella storia) e di «uscire» (da noi stessi, le situazioni, la storia). Confine non solo fisico tra esterno e interno, ma anche tra pubblico e privato, tra ignoto e noto… Posso usare la porta come barriera (per isolarmi, per difendermi, per lasciare fuori – il venditore dell’aspirapolvere, ad esempio… sì, lo ammetto: fingo di non essere in casa quando suona!). Oppure posso usare la porta come varco, squarcio nell’intimità per accogliere (gli ospiti) o per uscire e aprirmi a una conoscenza altra. E posso varcare porte di case altrui.

Entrare / fare entrare in una casa significa accedere / far accedere a uno spazio contemporaneamente simbolico e pratico, quotidiano, nonché un pochino anche abitudinario.

E possiamo farlo da visitatori superficiali, senza sentirci coinvolti, o possiamo farlo da ospiti coinvolti, in relazione. Possiamo sentici estranei (anche in casa propria) o sentirci «a casa» anche in dimore altrui.

Ma che cos’è l’etica se non proprio l’entrare in un mondo al tempo stesso simbolico e pratico, quotidiano, talora abitudinario, da conoscere/far conoscere, in cui entrare integralmente, senza escludere nessuna facoltà umana?

Tempo di stare semplicemente sulla soglia?

Ma questa «porta di casa», che in questo momento per molti è soglia, luogo di confine tra nuove abitudini e sicurezze da una parte e scalpiccio impaziente di tornare alla «normalità» dall’altra, può aiutarci a comprendere con quale criterio la varcheremo nuovamente: con stile difensivo, autocentrato, o con stile comunicativo, relazionale, di attenzione, magari di stupore per un invito inatteso a varcare nuove porte e soglie?

Ma un’attenzione etica/morale, personalmente, non mi basta. Personalmente desidero che abbia anche un gusto, uno stile teologico.

«“Maestro, dove dimori?”. Disse loro: “Venite e vedrete”» (Gv 1,38-39). Un imperativo e un futuro. Abiteremo il mondo nel modo in cui ora lo stiamo costruendo, tra le mura domestiche. Facendoci invitare non solo da una riflessione etica, ma anche da un invito personale di quel Dio, fatto carne, che ha aperto la sua porta di casa, ma ne è anche uscito ed è entrato in case di altri. Capace di abitare luoghi propri e altrui, ma mai estranei.

 

Gaia De Vecchi è insegnante di religione presso l’Istituto Leone XIII e docente presso l’Università cattolica del Sacro Cuore e l’Istituto superiore di scienze religiose a Milano. Fa parte dell’ATISM e del gruppo di redazione di Moralia. Ha scritto Il peccato è originale?, Cittadella, Assisi 2018.

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