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Moralia Blog

Violenza e religioni: spezzare i legami perversi

Nei giorni scorsi «Moralia» ha pubblicato due graditi post – rispettivamente di Brunetto Salvarani e di Paolo Naso – che rimandavano in forme diverse al rapporto tra religioni e violenza (in relazione alla strage di Sousse e al persistente razzismo negli USA). Si tratta, in effetti, di un fenomeno che sembra riemergere diffusamente in questo tempo: quante volte negli ultimi mesi abbiamo visto riproporsi immagini dure, scioccanti nella virulenza degli atti rappresentati, drammatiche in ciò che rivelano dell’animo di chi li compie.

Un rapporto inscindibile?

Non stupisce che vi sia chi ceda alla tentazione di giudizi sommari, accusando il fenomeno religioso in quanto tale di essere inestricabilmente connesso alla violenza. Non sarebbe forse insita nella religione stessa la tendenza a legittimare qualunque azione, se solo compiuta in nome di un assoluto con cui si vanta un diretto rapporto? Non vi sarebbe cioè al cuore dell’esperienza religiosa – nella figura stessa dell’uomo religioso – una dinamica intrinsecamente im-morale?

Per chi – come buona parte degli autori di «Moralia» – esplora il significato dell’etica a partire dalla fede cristiana, l’interrogativo è particolarmente acuto, né mancano nella storia del cristianesimo episodi ed eventi che potrebbero supportare tale prospettiva. Occorre certo riconoscere la rete di legami che la religione – fenomeno segnato da una dimensione storica e contingente – viene ad assumere con dinamiche storiche spesso profondamente ambivalenti. Troppe volte l’appello all’assoluto è valso – e vale tuttora – a mobilitare forze profonde, a scatenare conflitti letali nelle loro conseguenze.

Altri legami

E tuttavia non c’è solo questo: la religione sa anche essere costruzione di legame e di relazione (re-ligio, da re-ligare), sa declinarsi come attenzione rispettosa e delicata nella cura per l’alterità. È questa, anzi, una prospettiva imperativa per un cristianesimo che ha il dono di sé al cuore della propria narrazione salvifica. Ciò che la contraddice è cioè mero tradimento – purtroppo storicamente non raro – del messaggio più autentico di una Scrittura che associa alla pace lo stesso nome di Dio.

Dialogare per la pace, allora, significa scommettere che qualcosa di analogo sia vero anche per le altre fedi dell’umanità; che – al di là delle contraddizioni che esse pure portano in sé – vi sia un forte nocciolo pacificante, che attende ancora di dispiegarsi appieno. Un segnale importante in tal senso viene dalle dure condanne degli episodi di violenza del 26 giugno 2015 levatesi in una vasta parte del mondo musulmano, fedele a colui che viene invocato come clemente e misericordioso.

Spezzare i legami tra religioni e violenza: questa la posta in gioco in quella scommessa che è il dialogo tra le religioni. Non stupisce che papa Francesco abbia decisamente scelto di orientare in tal senso il suo pontificato (come già segnalato per la Laudato si’ il 24 giugno). Non è l’ingenuità imbelle di cui alcuni lo accusano, ma lo stile della «regola d’oro»: comportarsi con gli altri come si desidera che essi stessi facciano, confidando nella possibilità di attivazione di dinamiche virtuose condivise. Una scelta cioè eminentemente morale, ma anche profondamente religiosa, espressiva della fiducia nelle possibilità di veder sorgere un homo absconditus, finalmente capace di accogliere l’appello dello Spirito, per lasciarsi coinvolgere in cammini di pace condivisi. 

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