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Moralia Blog

Vorrei ma non «pasto»: cibo e giustizia

Le connessioni del nostro cibo con il dolore del mondo sono molto spesso accuratamente nascoste. Sono tantissime forme di ingiustizia e di violenza che si possono verificare nel corso della filiera che un prodotto alimentare attraversa dal campo alla tavola, e il rischio è che ci si sgomenti e si consideri il tema come troppo vasto, troppo complesso, troppo sfuggente e troppo lontano per poter davvero porvi rimedio semplicemente modificando i nostri comportamenti.

 

Le connessioni del nostro cibo con il dolore del mondo sono molto spesso accuratamente nascoste. Sono tantissime forme di ingiustizia e di violenza che si possono verificare nel corso della filiera che un prodotto alimentare attraversa dal campo alla tavola, e il rischio è che ci si sgomenti e si consideri il tema come troppo vasto, troppo complesso, troppo sfuggente e troppo lontano per poter davvero porvi rimedio semplicemente modificando i nostri comportamenti.

Si potrebbe immaginare, ad uso del consumatore che voglia cibo eticamente garantito, una sorta di manuale Haccp, Hazard-Analysis and Critical Control Point, cioè analisi del rischio e punti critici di controllo: un sistema perfettamente utilizzabile anche quando il problema non è l’igiene ma l’etica.

Cosa rischiamo, dal punto di vista etico, producendo, trasformando, distribuendo e consumando il nostro cibo? Di renderci complici di azioni eticamente riprovevoli, cioè che hanno come conseguenza la lesione dei diritti umani, la creazione di infelicità, fame, morte, soprusi, ingiustizie.

6 punti per valutare la filiera etica alimentare

Vediamoli, dunque i punti critici da tenere sotto controllo:

1) I semi: tutto il nostro cibo (inclusi carne, latte, uova) è reso possibile da sementi. Le pochissime e grandissime multinazionali che possiedono i brevetti del 95% delle sementi utilizzate in agricoltura stanno rendendo la vita degli agricoltori tradizionali (quelli che ancora producono le loro sementi) molto complicata; inoltre tendono ad uniformare il panorama delle colture mondiali, impoverendo la biodiversità esistente, sulla quale si basa la resilienza di tanti sistemi naturali e agricoli. Infine, quegli ibridi commerciali, sono spesso bisognosi di input energetici (acqua, concimi, meccanizzazione) molto più alti di quelli richiesti dalle varietà tradizionali, e con questo veniamo al secondo punto. 

2) Le scelte agronomiche: l’uso della chimica di sintesi in agricoltura si basa su derivati del petrolio. Il petrolio, come sappiamo, viene estratto solo in alcuni paesi del mondo, e molti di quei paesi hanno governi violenti e dittatoriali, che – proprio grazie alla notevole quantità di denaro che noi mettiamo a loro disposizione – mantengono le popolazioni in uno stato di sottomissione e povertà. Questo tipo di agricoltura, inoltre, predilige la monocoltura, che a sua volta incide sulla perdita di biodiversità.

3) La trasformazione: i processi industriali di trasformazione del cibo, che devono produrre alimenti in grado di conservarsi quanto più a lungo possibile, fanno uso di ingredienti (tra cui alcuni che non hanno nulla a che fare con l’alimentazione) che contribuiscono a minare la salute pubblica: ancora una volta qui sono i più deboli, economicamente e culturalmente, ad essere danneggiati.

4) Il trasporto: il sistema della grande distribuzione e dei mercati globali ha forti responsabilità nell’inquinamento generato dal trasporto. Il cambiamento climatico si traduce in fame, danni e morte per le società più povere, più dipendenti dalle produzioni primarie, più a diretto contatto con la natura.

5) Lo spreco: proprio il sistema alimentare industriale, che si può avvalere di produzioni a costi molto ridotti, è la principale causa di spreco alimentare. Sprecare cibo significa sprecare risorse comuni, e non abbiamo il diritto di mandare in discarica acqua, elettricità, tempo ed energie che non appartengono solo a noi.

6) Il prezzo: fatto 100 il prezzo di un prodotto alimentare venduto al consumatore, mediamente il produttore iniziale riceve 17. Quando ci rallegriamo per un’occasione di risparmio pensiamo che i risparmi sul cibo si ottengono spesso grazie a retribuzioni ingiuste di chi ha lavorato per produrlo: i braccianti stagionali immigrati, ma anche ai produttori di latte o di grano, che oggi spuntano prezzi all’origine completamente insostenibili.

E ora? Come si controllano tutte queste variabili? Per fortuna c’è una risposta semplice: conoscendo quel che si porta in tavola. Mettendo a disposizione della spesa che facciamo, tempo e cocciutaggine. Il nostro manuale Haccp dovrà dunque contenere una sola raccomandazione: non acquistiamo cibo di cui non sappiamo abbastanza.

Quando le etichette non bastano: la via della cultura alimentare

Certo, le etichette sono state pensate appositamente, ma non sono uno strumento sufficiente, perché molte delle azioni che rendono un cibo eticamente inammissibile, sono azioni perfettamente legali. Nessuno scriverà in etichetta: «Attenzione, questo cibo è stato prodotto con azoto di sintesi, il quale viene estratto dal petrolio acquistato in Nigeria, paese in cui un dittatore ha il controllo economico sui pozzi, e mantiene il suo popolo in condizioni di miseria e vessazioni».

L’unica via è quella della competenza e della cultura alimentare che il cittadino deve sviluppare. Perché le leggi del mercato funzionano sempre, non solo quando è ora di far danni. Se i cittadini chiedono cibo etico, si creeranno spazi commerciali diversi, le forze migliori delle società si alleeranno per creare filiere eticamente sicure, come già sta succedendo con i prodotti del fair trade, con i prodotti di Libera Terra, con i prodotti dei progetti Slow Food, con i tanti mercati contadini, con i prodotti dell’agricoltura biologica.

Certo, ci sono tante opzioni comode, a buon mercato e gradevoli al gusto, oltre che salutari per chi le consuma: ma il fondamento di ogni istanza etica è chiedersi come staranno gli altri in conseguenza delle nostre azioni. Proviamo a farci questa domanda prima di ogni acquisto alimentare e se la risposta non sarà convincente, l’unica opzione eticamente valida sarà: «No, grazie. Vorrei, ma non pasto».

 

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