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Moralia Dialoghi

A 500 anni dalla Riforma: sfide per l'etica

Introduzione

Tra i Dialoghi di Moralia questo si segnala per il contesto influente in cui viene a collocarsi: quello delle celebrazioni per i 500 anni della Riforma, che invitano anche la teologia cattolica – e segnatamente l’etica teologica – ad un attento ripensamento del proprio discorso. Si tratta, in effetti, di confrontarsi anche in quest’ambito con i profondi mutamenti nella comprensione della figura di Lutero e della stessa Riforma che hanno interessato il mondo cattolico negli ultimi decenni. La teologia non può più lasciarsi guidare da quelle immagini stereotipe e controversistiche che vengono ampiamente analizzate dall’intervento dello storico Carlo Urbani.

Oggi è più facile invece andare aldilà della polemica, per entrare fruttuosamente in dialogo con quell’etica protestante che ci viene presentata dai contributi del metodista William Jourdan e dell’avventista Hanz Gutierrez. Essi disegnano due figure di cui va sottolineata la diversità – pur nella comunanza di parecchi elementi – a segnalare la pluralità e la ricchezza che vive nel mondo evangelico, così come la complessità delle istanze di ripensamento che lo attraversano. Il dialogo appare davvero necessario e promettente, ancor più dopo le ultime tappe di quel confronto ecumenico che ha interessato in modo particolare il mondo cattolico e quello luterano, qui presentato dall’intervento di Simone Morandini: il consenso fondamentale raggiunto nel 1999 sul tema della giustificazione è denso di conseguenze anche sul piano morale.

È soprattutto il contributo di Placido Sgroi a esplicitare le prospettive che si aprono in tale ambito per un’etica elaborata in prospettiva ecumenica: l’autore segnala la centralità metodologica del discernimento, quale stile di una possibile elaborazione condivisa. Basilio Petrà, da parte sua, evidenzia la rilevanza del contributo della teologia ortodossa, per una riflessione a tutto tondo, capace di valorizzare appieno la ricchezza elaborata dall’intera ecumene cristiana. 

Confidiamo che questo Dialoghi – con la varietà delle voci che vi compaiono – possa contribuire alla celebrazione dei 500 anni della Riforma protestante ed al cammino di comunione delle chiese cristiane. La speranza è che il ripensamento della memoria sia occasione per attivare tante potenzialità positive che un passato di controversia e di polemica ha potuto limitare nella loro vitalità.

Immagini deformanti: tra storiografia e ritratti del "mostro" Lutero

Il "mostro" di Sassonia

«Fu portato in Modena una depintura de uno monstro nato in Saxonia de una vacha, el quale ha una testa quasi humana et ha una chiericha et uno scapulario de pele come uno scapulario de frate et le braze denanze e le gambe e pede come de porcho, e la coda de porcho; se dice è uno frate che se domandava Martin Utero che è morto, el quale pochi anni fa predicava la heresia in Lamagna»: così, in una nota del 26 marzo 1523, il cronista modenese Tommasino Lancelloti offre una delle prime figurazioni del Riformatore destinate ad avere larga circolazione in Italia.

Le sembianze deformi del «mostro di Sassonia» sono destinate a rapida e ampia fortuna nella propaganda popolare, che metteva così in guardia dal pericolo dell’eresia. Nei tempi un po’ più lunghi della storia, però, esse appaiono declinare per lasciare il posto alla discussione teologica, alla controversia confessionale tendente a improntare e a dare valore legittimante al profilo storico-biografico dell’Ercole di Germania. Al teologo conterraneo di Lutero, Johannes Cochlaeus si devono in questo senso le prime, e per certi versi decisive, opere di successo storiografico, veri bests sellers, circolanti in tutta Europa. Egli pubblicherà, infatti, l’Adversus cucullatum Minotaurum Wittenbergensem, pubblicato nel 1523 e, soprattutto, i Commentaria de actis et scriptis Lutheri usciti a stampa tre anni dopo la morte dello stesso Lutero, avvenuta ad Eisleben nel 1546. Tra le varie caratteristiche egli è descritto come familiare del demonio, roso da livore e invidia, falso e superbo fino alla ribellione.

Per la storiografia cattolica Cochlaeus fornisce per quasi quattro secoli l’ermeneutica volta a spiegare ai fedeli rimasti nell’ortodossia cattolica Lutero – e la Riforma da lui nata –, ponendo la ricostruzione storica, così come la discussione teologica, sul piano della polemica ideologicamente orientata. Nella biografia dell’ex frate agostiniano si individueranno quindi gli aspetti funzionali a tale interpretazione. In primo luogo, facilmente intuibile, il matrimonio con l’ex-monaca Katharina von Bora, che permetteva di affiancare – facendoli risaltare – i cedimenti sul piano teologico-spirituale con quelli sul piano etico-sessuale di Lutero.

Nell’aprile del 1850, il tema del frate «laido», avaro e orgoglioso sarebbe stato ripreso dal gesuita Matteo Liberatore nel primo numero de La Civiltà Cattolica, la nuova rivista con la quale la Compagnia di Gesù intendeva dare il proprio contributo alla «santa crociata […] contro la invasione della eterodossia». E le caratteristiche peculiari dell’ex-frate – descritto come doppiamente colpevole, proprio perché venuto meno anche alla vita religiosa per la quale si era solennemente impegnato – sono ribadite: «audace, scaltro, protervo, ardente di superbia e di libidine».

 

Un limitato cambio di passo

Decisiva per un cambio di passo nella lettura cattolica della vicenda luterana è la complessa biografia Luther und luthertum in der ersten Entwickelung (1904, trad. it. Lutero e il luteranesimo nel loro primo sviluppo), pubblicata dal domenicano Heinrich Denifle. Tra gli esponenti di punta della storiografia cattolica di fine Ottocento, egli è stretto collaboratore del cardinal Franz Ehrle prefetto della Biblioteca Apostolica Vaticana, da poco aperta agli studiosi da papa Leone XIII. In questo lavoro, divenuto in brevissimo tempo il punto di riferimento per la storiografia cattolica, l’interpretazione dell’apostasia di Lutero è relativamente semplice. Brillante dal punto di vista intellettuale, ma teologicamente formato su basi incerte, il frate ribelle non sarebbe stato un esempio di vita religiosa, perché troppo segnato da un carattere irruente, prorompente, predisposto al cedimento nei confronti delle perverse attitudini morali. Influenzato dallo sviluppo delle nuove scienze sociali e dalla psicologia, Denifle riveste di rinnovata forma la pregiudiziale interpretazione controversista della figura del frate ribelle individuando nella disperazione umana il punto più basso toccato da Lutero. Egli ne esce così ritratto come irresistibilmente cedevole nei confronti della lussuria, della cupidigia, della concupiscenza, della rilassatezza spirituale, e al tempo stesso persuaso che alla propria salvezza può giungere da sé, senza quella mediazione che la Chiesa gli offre nella preghiera e nelle opere di misericordia.

Anche per il suo carattere di aperta contrapposizione, su un piano scientifico, con la letteratura nel frattempo in larga diffusione in campo luterano e in quello liberale, l’opera del Denifle – in parte temperata dalla successiva monografia del gesuita Hartmann Grisar (uscita nel 1926) che, liberando Lutero dalla depravazione lo considerava soprattutto vittima della propria presunzione e del proprio pessimismo – ha avuto grande influenza. Indubbiamente è essa che ha innervato, direttamente o indirettamente, la storiografia cattolica per gran parte del Novecento e, per lo meno fino al concilio Vaticano II, soprattutto nelle sue parti polemicamente più aggressive e insultanti. Si prenda, ad esempio, l’articolo pubblicato in occasione del quarto centenario della pubblicazione delle 95 tesi, nel 1917, dalla Civiltà Cattolica che riprende già a partire dal titolo la tesi del Denifle (nel frattempo morto): «da Lutero cominciò quella indegna parodia, con la quale il ribelle monaco attribuiva a Dio le idee, le bestemmie, le infamie della sua mente pervertita […] gittò la tonaca sull’albero di Giuda in nome di Cristo, e in nome di Cristo si congiunse con una sacrilega».

 

Il secondo dopoguerra

Carica di tale secolare bagaglio, la storiografia cattolica sembra impreparata al rinnovamento postconciliare con le sue aperture ecumeniche, incapace, soprattutto nelle grandi sintesi manualistiche, di affrontare la vexata quaestio di Lutero senza uscire dal problema del “dentro o fuori”, “ortodossia o eterodossia”. Alla fine degli anni ‘60, ad esempio, in Italia vede la luce per i tipi della casa editrice SAIE la traduzione della Storia della Chiesa, pubblicata nell’immediato Secondo dopoguerra in Francia a cura di Augustin Fliche e Victor Martin. In essa il gesuita Edmond de Moreau, professore di storia a Lovanio, scomparso già nel 1952, curatore del volume sulla crisi religiosa del XVI secolo, intitolava il capitolo di apertura del volume, ancora una volta, Lutero e il luteranesimo. Continuava a qui permanere l’appello alla psicologia per comprendere l’atteggiamento ribelle del frate agostiniano, che «malgrado la sua intelligenza, resta soprattutto un emotivo […] di temperamento impetuoso, oratorio, egli è portato ad esagerare e a drammatizzare». Non mancava peraltro l’apertura a una visione più conciliante, col ricorso ad improbabili ossimori come quando si cercava di dimostrare che in virtù di tale carattere «quando [Lutero] afferma l’opposto della verità non va quindi accusato troppo in fretta di menzogna».

Allo stesso modo, il gesuita Giacomo Martina nel primo volume della sua fortunata opera su La Chiesa nell’età dell’assolutismo, del liberalismo, del totalitarismo, pubblicato da Morcelliana nel 1969, farà riferimento all’“esuberanza” di Lutero per comprenderne il comportamento, mentre Hubert Jedin, il grande storico tedesco del Concilio di Trento e curatore della Storia della Chiesa edita in Italia da Jaca Book, sembra quasi voler rinunciare a sciogliere l’enigma, ritenendo Lutero «troppo spesso esposto ai rischi del suo temperamento irascibile e della sua violenza polemica [da rendere] difficile comprenderne la figura e l’opera». Joseph Lortz nel volume su La riforma in Germania, uscito nella traduzione italiana di Gianfranco Ferrarese alla fine degli anni ‘70, evidentemente sollecitato dalle novità conciliari in materia di attenzione al primato della parola di Dio, pone l’accento sul limite che, a suo dire, avrebbe caratterizzato il rapporto tra Lutero e la Scrittura: «Egli che voleva affidarsi senza riserve alla parola di Dio, non ne è mai stato un ascoltatore nel pieno significato del termine».

Una considerazione a parte deve essere fatta per il Lutero – nel quinto centenario della nascita – di Giuseppe Alberigo, «dono per la chiesa universale» che la «Provvidenza buona ha fatto»; è indiscutibile che questa lettura, eredità di una tradizione di confronti storiografici in campo aperto, presenta indubbi elementi di novità. Si tratta di una lettura da parte di uno studioso cattolico che ha saputo superare l’approccio della “teologia della storia”, ereditata dal suo maestro Jedin, per introdurre i principi della critica storica. Benché non senza resistenze, che si intrecciano con l’interpretazione dello “spirito del Vaticano II” interpretato dalla scuola di Bologna di cui Alberigo è stato il maestro, tale approccio ha lasciato un segno indelebile nella storiografia cattolica alla fine del Novecento.

Ma è il gesuita spagnolo Ricardo Garcia-Villoslada, autore di una biografia edita in Italia dall’Istituto di Propaganda Libraria e arricchito da una breve nota del card. Carlo Maria Martini, a fornire esplicitamente, senza perifrasi, i criteri che guidano lo storico cattolico nel guardare agli avvenimenti messi in moto da Lutero: «Se una donna è stata calunniata, vilipesa, ricoperta di sputi, maledetta da un uomo potente e influente, è naturale che quando quest’uomo passi alla storia non sarà facile a un figlio di quella donna scrivere la biografia serena, imparziale, obiettiva, freddamente critica e giustificabilmente laudativa di chi ha oltraggiato, colpito ed esecrato sua madre, anche se metterà nel suo lavoro la migliore buona volontà».

 

Sfide della storiografia cattolica nell’era moderna

Vittima, dunque, di una sorta di “complesso di Edipo”, la storiografia cattolica sembra non riuscire a liberarsi dal paradigma con il quale ha sempre guardato al suo passato, considerato – da Eusebio di Cesarea a Benedetto XVI – come historia salutis nella quale si narra la fedeltà della parola di Gesù Cristo: «Ecco, io sarò con voi fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20). In questa chiave interpretativa non c’è spazio per ipotesi diverse da quelle dello schieramento da una parte o dall’altra, dalla parte della verità o da quella dell’errore, dalla parte della Chiesa cattolica o da quella della “eresia”. Se per oltre quattro secoli, le ragioni della rottura sono state fatte risalire volta a volta all’influenza del dominio, alla malafede o al carattere irruento del frate ribelle, ora, nel clima dei mutati rapporti tra le Chiese, si sente la necessità di attribuire a errori teologici o esegetici la spiegazione di una scelta radicale, che ha portato il frate agostiniano a diventare protagonista della storia.

A proposito di etica: una prospettiva protestante

Una duplice caricatura

È abbastanza comune, anche nell’ambito di dibattiti tra esperti (o presunti tali!), che il protestantesimo sia oggetto di una duplice critica: da un lato, vale l’affermazione secondo la quale - a fronte della sottolineatura della radicalità della grazia di Dio che realizza la salvezza del credente, senza la sua cooperazione - si apra la strada ad ogni sorta di immoralità. Dall’altro, i protestanti, nelle loro forme storiche, sono spesso accusati di essere stati (o, anche, di essere ancora) dei rigidi bacchettoni.

Le due affermazioni, di per sé, si annullano a vicenda e rappresentano caricature di fronte alle quali si può sostare con un sorriso. Entrambe, tuttavia, interrogano il protestantesimo rispetto al campo dell’etica, cioè a quell’ambito che riguarda l’agire dell’individuo, in questo caso del credente. Ho già scritto che ritengo che una definizione – perfettibile ma non arbitraria – dell’etica in una prospettiva protestante sia questa: l’etica è il tentativo, provvisorio ma necessario, della comunità credente, di vivere l’ubbidienza concreta al comandamento di Dio nella situazione data. Mi sembra opportuno cercare di articolare i termini di questa definizione.

 

Una risposta necessaria e provvisoria

Il primo aspetto che mi pare importante sottolineare è che l’etica, in una prospettiva protestante – o comunque, nella prospettiva che intendo cercare di delineare – si caratterizza come risposta al tempo stesso necessaria e provvisoria.

La necessità è legata all’esigenza del discepolo di Cristo di rispondere al comandamento di Dio: la nozione di responsabilità non è, in tale quadro, un concetto vago, bensì il termine che permette di comprendere teologicamente l’azione del credente. Essa rimanda al carattere relazionale della fede, che istituisce un legame tra l’individuo e Dio e che determina – non nel senso di un rapporto causa-effetto – la sua azione come risposta alla parola di Dio e al prossimo.

La provvisorietà di tale risposta è legata al fatto che l’agire responsabile – come azione che articola l’obbedienza alla parola di Cristo attraverso il servizio al prossimo – assume il rischio di attuare tale risposta nell’ambiguità e nella relatività della storia umana. In tale spazio, il riferimento al comandamento non può divenire tentativo di applicazione di un principio astratto, pena il suo fraintendimento in chiave legalistica. È noto che, nella storia del ‘900, il teologo evangelico che ha riflettuto con maggiore puntualità su tale aspetto, è Dietrich Bonhoeffer. Egli afferma che il comandamento non può essere separato da Cristo e da quella realtà contraddittoria nella quale esso è applicato nella relazione con il prossimo. È solo in tale realtà che il comandamento è pronunciato, ascoltato e può essere ubbidito.

L’agire responsabile è quindi il necessario e provvisorio tentativo di ascolto – e quindi di ubbidienza – del comandamento nella contraddittorietà concreta della realtà. «L’obbedienza è possibile solo nella responsabilità, che è il nome concreto della libertà, cioè lo spazio entro il quale l’essere umano vive il comandamento nelle tensioni che caratterizzano la realtà» (Fulvio Ferrario).

 

Autonomia e responsabilità

Per queste ragioni, l’etica protestante è chiamata ad una riflessione puntuale sul rapporto tra autonomia e responsabilità. Non ho difficoltà ad affermare che l’etica protestante, nella comprensione che cerco di esprimere, è necessariamente un’etica eteronoma, che riconosce quindi priorità al piano relazionale, tanto nella dimensione verticale (con il Dio che rivolge la sua Parola), quanto in quella orizzontale (con gli altri soggetti destinatari di tale Parola).

Un’affermazione univoca dell’autonomia del soggetto etico – in questo caso, del credente o discepolo – perde di vista la consistenza del comandamento, come parola che si rivolge ad una comunità credente. È in tale ambito, infatti, che l’ascolto del comandamento prende forma; tanto nell’Antico Testamento quanto nel Nuovo Testamento gli imperativi di Dio sono rivolti ad una comunità credente, non ad un soggetto isolato. In un testo di qualche anno fa, imponente per numero di pagine e per lucidità espositiva, lo studioso di Nuovo Testamento Richard B. Hays propone una serie di immagini focali che dovrebbero accompagnare, in maniera sintetica, una possibile articolazione di quella che è la visione morale del Nuovo Testamento. La prima immagine proposta da Hays è appunto quella della comunità. «La Chiesa è una comunità anticulturale di discepoli, e tale comunità è il destinatario primario degli imperativi di Dio».

Un protestantesimo non dimentico della propria identità ecclesiale, non può prescindere – nella mia comprensione – da tale affermazione nel tentativo di articolare le proprie posizioni etiche. Del resto, è evidente, se consideriamo alcuni aspetti del pensiero paolino, che l’apostolo delle genti non comprende mai il comandamento come diritto del singolo, che cerca la propria fedeltà a Dio, a discapito della comunità cristiana di riferimento. Nuovamente si pone la questione già rilevata in precedenza: l’ascolto del comandamento non è astratto solamente quando pretende di esprimere un principio assoluto che precede la realtà concreta; lo è anche quando si articola come risposta individualizzata che prescinde dal quadro di riferimento comunitario. È nello spazio relazionale offerto dalla comunità cristiana che i discepoli ricercano l’ubbidienza al comandamento di Dio.

 

…nelle diverse situazioni

In tale prospettiva, il comandamento non è una realtà data una volta per tutte, bensì una parola che deve essere riconosciuta e ricercata nelle differenti situazioni. Non è la Parola in quanto tale a variare, bensì la forma che essa dà all’obbedienza nelle diverse circostanze. Il caso specifico di Bonhoeffer che riflette – nel quadro della congiura contro Hitler – sul ricorso alla violenza, illustra bene questa situazione. Il teologo non afferma che la violenza in quanto tale – nel caso specifico, la scelta di tramare per l’uccisione del dittatore – sia divenuta una sorta di bene superiore giustificato dalla situazione. Egli ritiene piuttosto che l’azione responsabile comporti l’assunzione di una colpa in nome di una scelta che, alla luce del discernimento esercitato, configura l’agire come conforme al discepolato cristiano, cioè conforme alla chiamata ricevuta da Cristo. Di fatto – nel quadro della situazione specifica nella quale, attraverso l’esercizio di discernimento attuato dalla comunità cristiana, si addiviene ad una scelta – si è di fronte al tentativo di ubbidire al comandamento di Dio. La scelta mantiene un suo carattere contingente in quanto è riferita ad una situazione specifica ma, in questa sua provvisorietà, è comunque il tentativo responsabile di re-agire al comandamento di Dio.

Le risposte che il protestantesimo ha cercato e cerca di offrire a molte questioni legate, negli ultimi anni in maniera particolare, ai tema dell’etica della vita tentano di interpretare questo equilibrio; la sfida è grande e per molte domande che oggi si pongono le chiese nate dalla Riforma devono incamminarsi su sentieri non sempre facili da percorrere. Inizio e fine vita, procreazione medicalmente assistita, tecniche di potenziamento umano, cellule staminali: il tentativo di ubbidire concretamente al comandamento di Dio deve essere articolato anche in queste situazioni date.

 

"Sola scriptura"...ripensare l'etica della Riforma alla luce della Bibbia

Un rapporto ambivalente

Sin dalle sue origine il protestantesimo ha avuto con l’etica un rapporto ambivalente. Da un lato il forte accento sulla gratuità della salvezza, articolata nei cinque “sola” dei riformatori (Sola Scriptura, Sola Fide, Sola Gratia, Solus Christus, Soli Deo Gloria), suscitava una immediata diffidenza verso le “opere umane” come mezzo di salvezza, anche nell’ottica d’un rifiuto radicale del “sinergismo cattolico” che invece le nobilitava. L’etica ne usciva perdente, declassata a male necessario. Da un altro lato però, la superiorità della visione protestante doveva diventare visibile nella vita delle persone e nella sfera pubblica. E qui l’etica serviva. Con metodologie e strategie diverse quindi i riformatori reintroducevano l’etica nel loro progetto teologico. Lutero con la dottrina dei “Due Regni” e Calvino con l’uso normativo (tertius usus legis) che invece Lutero guardava con diffidenza.

Ma malgrado questa ambivalenza e titubanza iniziale, l’etica successivamente s’impose come registro privilegiato dell’ethos protestante. Secondo Wolfhart Pannenberg il protestantesimo diventò paradossalmente una religione etica. Questo è ben visibile nei rappresentati di spicco del protestantesimo liberale del ‘800, come E. Troeltsch, ma tutto sommato anche nel padre della teologia moderna, F. Schleiermacher. Ma la vittoria massiccia dell’etica all’interno del protestantesimo avverrà con l’interiorizzazione del modello deontologico kantiano a livello della coscienza personale di ogni protestante: il risultato sarà l’immagine del protestante disciplinato, lavoratore e probo in virtù d’una grande forza di volontà. Di questo Max Weber darà una lettura storica, provocatoria e un po’ mitizzata nel suo libro L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

Il protestantesimo di seconda generazione (metodisti, battisti, avventisti ecc.) riprenderà questa eredità e la radicalizzerà ancora di più, in virtù d’un sua più grande diffidenza e critica del contesto socio-culturale esterno alle chiese e grazie ad una lettura della Bibbia più militante. Il risultato fu che non solo l’identità protestante diventò per molti una identità etica forte, ma che la stessa ermeneutica protestante, quale praticata delle chiese evangeliche di seconda e terza generazione, divento una lettura quasi esclusivamente etica. “Identità etica” ed “ermeneutica” etica si rinforzavano a vicenda. Il risultato fu straordinario. Grande dinamismo, progettualità, efficienza evangelizzazione, espansione anche nelle roccaforti del cattolicesimo come il Centro ed il Sud America.

 

Un’istanza da ripensare

Questa “eticizzazione” del protestantesimo - manifesta oggi in gradi, forme, proporzioni diverse in tutte le chiese protestanti, chiese storiche e chiese recenti - pone però un problema. È diventato un fatto ambivalente, ambiguo sul quale bisogna riflettere. L’etica protestante deve essere valutata, “in primis” ad un livello socio-culturale perché molti dei problemi globali che affrontiamo oggi come società civile (individualismo, razionalismo, pragmatismo, antropocentrismo ecc.) anche se non necessariamente nati nel o dal protestantesimo, ricevono da questo comunque un supporto etico ed ideologico importante.

Ma l’etica protestante deve essere valutata e criticata anche da un punto di vista puramente biblico, poiché il confronto con la Bibbia è diventato paradossalmente nella maggioranza di chiese protestanti un esercizio unilateralmente giustificativo e convalidante di ciò che si è e fatica a produrre e facilitare un vero e proprio rinnovamento.

 

Due parabole

Per esempio nel Vangelo di Matteo, al capitolo tredici, troviamo il terzo sermone programmatico di Gesù, nella ripresa che Matteo ne fa del suo ministero, e che riguarda “le parabole del Regno”. Nei versetti 44-46 vengono presentate due parabole gemelle. Nella comprensione comunemente diffusa ma seguendo anche la tipica strategia ebraica della ripetizione, la seconda parabola è lì per rinforzare il senso e significato della prima. E, qual è il significato della prima parabola? Il significato della “Parabola del tesoro nascosto” ci dice che nella vita c’è solo una cosa preziosa, il “regno dei Cieli”. Contro tutti i miraggi ed illusioni che ci impediscono di vedere questa unica verità, la parabola ci spinge a scoprirla e a farla nostra. Ma questo è possibile unicamente tramite un grande sforzo (etica). Dobbiamo essere in grado di vendere e disfarci di tutto ciò che abbiamo pur d’investire risorse, sforzi, nell’intento di raggiungere questo Regno. Ogni cuore diviso, desiderio parziale, sforzo dimezzato è incapace di raggiungere questo obbiettivo. Il Regno lo può raggiungere solo chi è in grado di dare il tutto per il tutto. La lettura tipicamente protestante aggiunge, non è però uno sforzo penoso, mercantilista e disincantato, perché nasce già da una visione previa grandiosa, la bellezza del tesoro offerto, del “regno di Dio” che genera in noi uno “sforzo di gratitudine” non certamente uno “sforzo di conquista”.

La seconda parabola, la “Parabola della perla preziosa” sarebbe solo rinforzativa. Il regno dei cieli è la cosa importante e noi esseri umani dobbiamo dare per Dio ed il suo Regno uno sforzo indiviso e costante, se vogliamo esserne partecipi. Il problema però è che la prima parabola incomincia dicendo “Il Regno dei cieli è come un tesoro” ma la seconda invece dice «Il regno dei cieli è come un mercante». Allora se il Regno è il mercante, allora non può più essere la perla preziosa. Al contrario il mercante rappresenta invece colui che è povero, colui che è privo del tesoro, colui al quale viene chiesto uno sforzo indiviso e totale. Se questo è vero – che “il regno di Dio” in questa seconda parabola rappresenta il povero - chi è allora la perla di gran prezzo? L’essere umano. In questo caso allora non siamo più noi a dover cercare, sforzarci e faticare ma compete a noi essere cercati, desiderati, corteggiati. Cambia in questa seconda parabola lo statuto dell’umano, di tutti noi, ma anche lo statuto di Dio e del suo Regno.

Non sono dunque due parabole ripetitive. Sono parabole diverse. La prima è una parabola teocentrica e la seconda una parabola antropocentrica. Solo questo fatto sconfessa le letture - protestanti o non - monolitiche e unilaterali della Bibbia. La Bibbia non può essere imprigionata da una lettura protestante della “Sola Gratia”, come nei primi riformatori, ma nemmeno da una lettura etica pragmatica, tipica dei protestanti di seconda e terza generazione. La prima convinzione e affermazione protestante è quella che dice che la Bibbia non è protestante ma appartiene all’umanità. Questa breccia che la Bibbia stessa crea nella nostra ermeneutica e quindi nella nostra identità di protestanti è preziosa, perché ci spinge ad avere un senso di sobrietà su noi stessi, sulla Bibbia e sulla realtà esterna a noi.

 
Due etiche

Queste due parabole fanno nascere due etiche diverse, tutte due bibliche. La prima una etica dello sforzo come gratitudine e risposta a Dio. La seconda un etica della fioritura, della consapevolezza e della manifestazione del valore intrinseco che Dio ha messo in noi. La spaccatura quindi che la Bibbia stessa provoca nelle nostre interpretazioni monolitiche e compatte è solo una metafora del fatto che la Bibbia va letta insieme ad una lettura attenta della realtà esterna. In altre parole il principio della “Sola Scriptura” può facilmente essere interpretato male come chiusura al mondo esterno. Questo sarebbe “bibliolatria”.

La Bibbia è un libro inclusivo, che non pretende dire tutto ma che ambisce ad aprire una prospettiva di vita nella quale il valore, il linguaggio, le aspirazioni, la creatività umane sono nobili e riconosciute come tali. La Bibbia promuove certo l’azione, la convinzione, lo sforzo, la disciplina, la coerenza ma non certo le assolutizza. Anzi il pluralismo biblico, le spaccature e cambi di prospettive, gli attori diversi, i modelli alternativi interni, la sobrietà delle immagine, i riferimenti sfumati e tangenziali, tutto questo è lì come garanzia per evitare di costruire con la Bibbia dei sistemi etici monolitici, eccessivamente lineari, meccanici e autosufficienti.

«Insieme confessiamo…»: il percorso del dialogo cattolico-luterano

Il dialogo ecumenico è ormai dimensione qualificante per le chiese cristiane. Col concilio Vaticano II e il decreto Unitatis redintegratio anche la Chiesa cattolica si è impegnata in esso, ai massimi livelli. Tra le traiettorie più significative di questi decenni, il dialogo cattolico-luterano, che acquista una particolare rilevanza nel 2017, 500° anniversario della Riforma protestante.

 

Francesco: eventi e parole

Lo sottolineava papa Francesco, il 6 febbraio 2017 alla delegazione della EKD (Chiesa Evangelica Tedesca): «Nella realtà dell’unico Battesimo che ci rende fratelli e sorelle e nel comune ascolto dello Spirito, sappiamo, in una diversità ormai riconciliata, apprezzare i doni spirituali e teologici che dalla Riforma abbiamo ricevuto»[1].

Una sottolineatura analoga a Lund il 31 ottobre 2016, per l’apertura delle celebrazioni del cinquecentenario della Riforma promosse dalla Federazione luterana mondiale (un momento ecumenico di grande intensità anche rispetto ai tanti altri di questo pontificato)[2]. «Signore, aiutaci con la tua grazia a essere più uniti a te per dare insieme una testimonianza più efficace di fede, speranza e carità», invocava Francesco nella cattedrale luterana di Lund[3]. La confessione di colpa per una divisione contraria alla volontà del Signore si intrecciava così col rendimento di grazie per i frutti di Vangelo di una Riforma protestante che «ha contribuito a dare maggiore centralità alla Sacra Scrittura nella vita della Chiesa». Un accento particolare su alcuni elementi centrali dell’esperienza e della riflessione di Martin Lutero: «Con il concetto di solo per grazia divina, ci viene ricordato che Dio ha sempre l’iniziativa e che precede qualsiasi risposta umana, nel momento stesso in cui cerca di suscitare tale risposta. La dottrina della giustificazione, quindi, esprime l’essenza dell’esistenza umana di fronte a Dio».

Il concetto di giustificazione è stato al centro del dialogo teologico realizzato in cinquant’anni da cattolici e luterani. Nell’evento di Lund trova in effetti espressione un lungo confronto sul Vangelo della grazia, essenziale per il cammino verso una cattolicità ecumenica[4] e rilevante per l’etica.

 

Mettere a fuoco le immagini

A monte di esso c’è il profondo cambiamento dell’immagine cattolica di Lutero. Non più eresiarca che deformerebbe l’Evangelo né individualista che spezzerebbe la comunità ecclesiale e neppure autore di un allentamento del legame tra opere e salvezza che aprirebbe ad ogni forma di amoralità: la ricerca storica impone visioni diverse. L’agostiniano Martin Lutero è stato monaco fedele, cercatore di un Dio di misericordia, scoperto nella parola di una Scrittura studiata con passione - «nell’Evangelo si manifesta la giustizia di Dio» (Rm. 1,17) – ed annunciato con la vita e la predicazione. La stessa passione lo muoverà ad una riforma della Chiesa che solo per le insormontabili difficoltà con i suoi interlocutori porterà a ciò che lui non avrebbe voluto – all’avvio di una diversa esperienza ecclesiale. È l’immagine di Martin Lutero testimone di Gesù Cristo[5]: coraggioso nell’esprimere il Vangelo in modo nuovo per tempi nuovi, promotore di un rinnovamento spirituale che si fa reformatio Ecclesiae.

Si può così ripensare – come faceva già nel 1957 H. Küng ne La giustificazione[6] - lo stesso concilio di Trento, scoprendo nel decreto sulla giustificazione una prospettiva non così distante dalle chiese della Riforma.

 

Un passaggio irreversibile

Tanti approfondimenti hanno permesso un percorso di riconciliazione delle memorie e di dialogo teologico tra Chiesa cattolica romana e mondo evangelico, specie con la Federazione Luterana Mondiale. Esso ha avuto il suo culmine nella firma – dopo ampio lavoro di ricerca[7] - di quello che è a tutt’oggi tra i frutti più alti dell’ecumenismo (almeno per la chiesa di Roma): la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione del 1998, recepita al massimo livello dalle due chiese nel Consenso sulla dottrina della giustificazione del 1999[8].

Un passo di portata senza precedenti: le Chiese luterane e la Chiesa cattolica «sono ormai in grado di enunciare una comprensione comune della nostra giustificazione operata dalla grazia di Dio, per mezzo della fede in Cristo»[9]. Tale confessione condivisa permette di affermare che le condanne scambiate tra le due comunità nel XVI secolo sulla giustificazione non colpiscono le rispettive dottrine, adeguatamente comprese. Le differenze di linguaggio e di accentuazione tra le due confessioni non hanno più portata divisiva, ma esprimono la ricchezza dell’Evangelo, irriducibile a una singola formulazione.

Un esempio magistrale di applicazione del principio ermeneutico espresso dal concilio Vaticano II in Unitatis redintegratio n.6: occorre distinguere con attenzione il deposito della fede dalla forme utilizzate per esprimerlo; se l’espressione della fede nel Dio che salva e giustifica delle comunità luterane non è identica a quella cattolica, resta però coerente con essa. A partire da tale testo va compreso anche l’evento di Lund: cattolici e luterani non hanno integralmente superato le loro differenze, ma esse andranno ormai collocate entro tale dialogo e tale reciproco riconoscimento. Si disegna così una prossimità non solo temporale tra due Giubilei (quello cattolico della misericordia e quello della Riforma), convergenti nella celebrazione della grazia misericordiosa di Dio, che previene e sostiene ogni agire umano. Lo si coglie confrontando alcuni testi chiave del mondo luterano con la bolla Misericordiae vultus[10] di indizione dell’anno giubilare[11]

 

Giustificazione ed etica

Il testo di consenso vale anche per l’etica, benché limitate siano le indicazioni esplicite in tal senso: al centro è il rapporto tra agire divino ed umano che interessa in primis l’antropologia teologica. Mi limito solo a richiamare alcuni passi chiave (usando il grassetto per evidenziarli), in un testo che tutto meriterebbe una lettura articolata

22. Insieme confessiamo che Dio perdona per grazia il peccato dell’uomo e che, nel contempo, egli lo libera, durante la sua vita, dal potere assoggettante del peccato, donandogli la vita nuova in Cristo (…) 24. Quando i cattolici sottolineano che il credente riceve in dono il rinnovamento del suo essere interiore ricevendo la grazia,[13] essi vogliono affermare che la grazia di Dio che reca il perdono è sempre legata al dono di una vita nuova, la quale si esprime nello Spirito Santo, in un amore attivo (…).

25 (…) il peccatore viene giustificato mediante la fede nell’azione salvifica di Dio in Cristo (…). Questa fede è attiva nell’amore e per questo motivo il cristiano non può e non deve restare inoperoso. 27. (…) Quando, secondo il modo di comprendere cattolico, si sottolinea il rinnovamento della vita mediante la grazia giustificante, tale rinnovamento nella fede, nella speranza e nell’amore non può mai fare a meno della grazia gratuita di Dio ed esclude ogni contributo alla giustificazione di cui l’uomo potrebbe vantarsi davanti a Dio (Rm 3, 27 ; cfr. Fonti del cap. 4.3).

31. Insieme confessiamo che l’uomo viene giustificato nella fede nel Vangelo, «indipendentemente dalle opere della Legge» (Rm 3, 28). Cristo ha portato a compimento la Legge e l’ha superata quale via alla salvezza mediante la sua morte e risurrezione. Parimenti confessiamo che i comandamenti di Dio rimangono in vigore per il giustificato e che Cristo nella sua parola e nella sua vita esprime la volontà di Dio, che è anche per il giustificato la norma del suo agire.

Affermazioni dense, ricche di senso, che forse attendono ancora di essere pienamente valorizzate dalla riflessione etica. In esse trova espressione lo sforzo di ritrovare parole comuni per dire dell’esistenza credente e del suo complesso rapporto con l’istanza morale, superando immagini stereotipe e contrapposizioni. L’etica appare in esse come parola seconda, sempre preceduta dalla misericordia del Dio che salva, eppure così essenziale per dar corpo alla vita nuova ricevuta in Cristo.

 

 

[1] w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170206_chiesa-evangelica.html

[2] S.Morandini, Francesco: un nuovo dinamismo ecumenico, in Studi Ecumenici 34 (2016), pp.491-526.

[3] w2.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2016/documents/papa-francesco_20161031_omelia-svezia-lund.html (consultato il 28.01.17).

[4] In tal senso W.Kasper, Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica, Queriniana, Brescia 2016.

[5] Così il testo della commissione cattolica romana – evangelico luterana del 1983 (V centenario della nascita di Lutero), in S.Voicu, G.Cereti (a cura), Enchiridion Oecumenicum 1, Dialoghi internazionali 1931-1984, EDB, Bologna 1986, pp. 743-751.

[6] H.Küng, La giustificazione, Queriniana, Brescia 1969.

[7] A.Maffeis, Giustificazione. Percorsi teologici nel dialogo tra le chiese, Cinisello Balsamo (Mi) 1998.

[8] Federazione Luterana Mondiale, Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, in G.Cereti, J.F.Puglisi (a cura), Enchiridion Oecumenicum 7 Dialoghi internazionali 1995-2005, EDB, Bologna pp. 887-912; Idd., Consenso sulla dottrina della giustificazione. Dichiarazione ufficiale comune, ivi, pp. 913-914.

[9] Federazione Luterana Mondiale, Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, p.887.

[10] http://w2.vatican.va/content/francesco/it/bulls/documents/papa-francesco_bolla_20150411_misericordiae-vultus.html

[11] In tal senso il Convegno su “Giubileo delle misericordia, giubileo della Riforma” organizzato dalla Facoltà Teologica del Triveneto di Padova e dall’Istituto di Studi Ecumenici “San Bernardino” di Venezia, specie l’intervento della pastora luterana Elisabeth Parmentier (http://www.fttr.it/lasciarsi-ri-formare-dal-vangelo/).

La via del discernimento: etica in prospettiva ecumenica

Il dibattito sui temi etici nel movimento ecumenico sembra ancora dominato dal conflitto delle interpretazioni e, quindi, dalla percezione che viviamo in un corpo moralmente diviso.1 Esso contiene, però, anche alcune felici novità, come la ripresa del dialogo sui temi etici, dopo una lunga stagione di silenzio.2 Dai documenti che sono stati prodotti attorno al Giubileo della Riforma3 viene, infatti, un nuovo impulso a una visione non conflittuale della testimonianza comune che i cristiani possono rendere all'Evangelo. Questo complesso movimento si sposa felicemente, d’altra parte, con il doppio percorso sinodale della Chiesa cattolica, che ha avuto il suo vertice nella pubblicazione dell'esortazione post-sinodale Amoris laetitia, e con il dibattito sulla sua recezione ampiamente in corso.

Un termine sembra risuonare frequentemente in questo indiretto dibattito: discernimento. Potrà essere quella del discernimento una via per la ripresa del dialogo sui temi etici nel movimento ecumenico? Per una ripresa che superi la - pur necessaria - metodologia della comparazione e vada verso l'individuazione di un paradigma che guidi verso una forma di comunione morale, che si situi nell'orizzonte di un consenso differenziato e differenziante e di una diversità riconciliata?

Alcune tesi

Proviamo a esprimerci attraverso alcune tesi sintetiche:

  1. La gerarchia delle verità morali, una volta definito il ruolo dell'etica nell'architettura dell'economia cristiana, invita a mettere la prassi del discernimento al primo posto della vita morale, come luogo della concreta possibile risposta alla chiamata di Dio a una vita secondo l'Evangelo. "Il primo e imprescindibile dovere morale del cristiano è il discernimento della volontà di Dio. Tale sforzo di discernimento come attività personale responsabile, e quindi come scelta pienamente umana, è già risposta positiva alla chiamata fondamentale e unica di Dio: implica infatti accettazione nella fede, volontà di sequela".5
  2. La Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione ha fatto definitiva chiarezza sulla posizione dell'etica rispetto all'architettura dell'economia cristiana (potremmo dire, nella gerarchia delle verità cristiane). È chiaro che essa è frutto della giustificazione per fede di cui rappresenta la realizzazione pratica, senza costituire, di per sé, una forma meritoria di acquisizione della stessa giustificazione.4
  3. La prassi del discernimento è diffusa nelle tradizioni cristiane, sia in quella protestante, con l'accentuazione del carattere vincolante ma concreto del comandamento di Dio,6 sia in quella ortodossa, con l'ampia applicazione dell'oikonomia alle norme morali delle tradizione, così da far loro raggiungere lo scopo di salvaguardare il bene delle anime, sia in quella cattolica nella forma dell'epikeia, come possibilità di adattare la norma morale alla specificità della situazione unica e irripetibile da cui essa è chiamata in causa. Lo evidenzia Amoris laetitia:

    È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano. Prego caldamente che ricordiamo sempre ciò che insegna san Tommaso d’Aquino e che impariamo ad assimilarlo nel discernimento pastorale: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. [...] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. [...] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare». È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione (Amoris laetitia, n. 304).

  4. Se la prassi del discernimento è così diffusa nelle tradizioni cristiane, perché non è emersa fino a ora come paradigma per un dialogo sui temi etici? Si tratta di verificare la possibilità di un cambiamento della prospettiva rispetto alla stessa immagine dell'etica, finora legata a uno schema deduttivo, che prevedeva l'elaborazione di una descrizione fondamentale\generale, per poi precedere a un'applicazione pratica dei principi e delle norme. Tale prassi, dal punto di vista ecumenico, risulta paralizzante, perché al consenso, sia pure differenziato, sulla prospettiva fondamentale non fa corrispondere, poi, un eguale consenso nella determinazione delle indicazioni morali concrete, con l'effetto di produrre una sorta di corto-circuito, che rende di fatto inutile anche il consenso sulle prospettive fondamentali.
  5. Il modello dei discernimento pastorale proposto nell'Amoris laetitia7 tende in un certo senso a rovesciare il percorso etico deduttivo e, senza rinunciare al valore di riferimento delle norme morali, a porre al centro del giudizio morale la determinazione della norma morale prossima in situazione. È un'operazione di taglio ermeneutico che invita a cercare il bene possibile a partire dalla sintesi fra la dimensione delle norme e dei valori e quello della concreta vicenda delle persone. La norma morale prossima concreta diviene quindi un atto creativo che rinvia, al di là di se stessa, a un orizzonte teologico e personalistico, fortemente connotato in termini dinamici.
  6. In questa prospettiva la dimensione normativa acquisisce il ruolo proprio di orizzonte di senso del vissuto etico, ma non determina più in modo assoluto e astratto la vita morale concreta, né il livello di comunione ecclesiale sui temi etici.

“Le leggi morali sono la cartografia di una lunga storia di esperienze. In altre parole le leggi morali non sono che l'espressione concettuale del già realizzato; e pertanto il loro valore è di essere norma direttiva, secondo cui si deve camminare. Le norme morali, infatti, non fanno che veicolare risposte già date a situazioni disumanizzanti e superate dalla coscienza umana.  Per questa ragione noi non possiamo accordare nessun valore di realtà alle norme morali astratte come tali. Del resto sono incapaci di rivolgerci un invito”.8

  1. È possibile anche a questo livello, oltre che a livello dottrinale, riconoscere un consenso differenziato rispetto alla pratica del discernimento e ai suoi possibili esiti concreti, che costituisca il punto di partenza per una ripresa del dialogo ecumenico sui temi etici. Esso dovrebbe, quindi, assumere la metodologia propria del discernimento, per ricercare se, e fino a che punto, le Chiese possono giungere a riconoscere nelle diverse forme di discernimento etico e nella pluralità dei giudizi morali forme legittime di pluralismo morale, che non contraddicono il riconoscimento di un comune fondamento dell'etica cristiana, pur esso da esplicitare continuamente nel dialogo ecumenico.
  2. Si tratta, cioè, di riconoscere, ancor prima della correttezza delle scelte morali operate dai singoli e dalle comunità, la presenza di una comune volontà di verità morale e di obbedienza al comandamento di Dio nelle procedure di discernimento che le diverse comunioni ecclesiali operano, in coerenza con la propria storia e i propri contesti vitali.

 

[1] M. Root - J.J. Buckley, The Morally Divided Body. Ethical Disagreement and the Disunity of the Church, Cascade, Eugene (OR) 2012.

[2] Anglican-Roman Catholic Theological Consultation in the U.S.A., Ecclesiology and Moral Discernment: Seeking a Unified Moral Witness (2014); Commission Faith and Order, Moral Discernment in the Churches. A Study Document (Faith and Order Paper No. 215). Wcc Publications, Geneva 2015.

[3] Commissione luterana - cattolica romana sull’unità, Dal conflitto alla comunione, in Il Regno – Supplemento 2013, n. 11; Chiesa evangelica tedesca, Giustificazione e libertà. 500 anni di Riforma 2017, in Il Regno – Documenti 2015, n. 4, pp. 11-38; Dichiarazione congiunta in occasione della Commemorazione Congiunta cattolico-luterana della Riforma, Lund, 31 ottobre 2016, http://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2016/10/31/0783/01757.html#ita .

[4] “Insieme confessiamo che le buone opere — una vita cristiana nella fede nella speranza e nell’amore — sono la conseguenza della giustificazione e ne rappresentano i frutti. Quando il giustificato vive in Cristo e agisce nella grazia che ha ricevuto, egli dà, secondo un modo di esprimersi biblico, dei buoni frutti. Tale conseguenza della giustificazione è per il cristiano anche un dovere da assolvere, in quanto egli lotta contro il peccato durante tutta la sua vita; per questo motivo Gesù e gli scritti apostolici esortano i cristiani a compiere opere d’amore” (DCG, n. 37)

[5] P. Piva, L'evento della salvezza fondamento dell'etica ecumenica, EMP, Padova, 260.

[6] “Il discepolo è chiamato a discernere, nella responsabilità, la parola esigente che Dio gli rivolge, qui ed ora. […] Entrando, mediante tale azione, nelle contraddizioni della realtà, come Cristo vi è entrato, il discepolo affronta il rischio del discernimento: il comandamento di Dio dev'essere cercato, non può essere sempre e solo constatato, e tale ricerca può essere soggetta ad errori” (F. Ferrario, Il futuro della Riforma, Claudiana, Torino, 2016, 154s).

[7] V. Il posto del discernimento in “Amoris Laetitia”, in Spadaro – Cameli, La sfida del discernimento in «Amoris Laetitia», in La civiltà cattolica 3985 (2016), 3-5.

[8]  Piva, L'evento della salvezza..., 258.

La teologia morale ortodossa dal XX secolo all’inizio del terzo millennio

I cinquecento anni dalla Riforma segnano profondamente quest’anno 2017 e le celebrazioni/commemorazioni sono iniziate presto, anche prima del 1° gennaio. Non so se analoghe iniziative saranno prese per ricordare i 100 anni dalla rivoluzione dell’ottobre 2017, ovvero dalla presa leninista del potere in Russia, che segnò la fine dell’impero zarista. Dal punto di vista della teologia morale ortodossa, però, questo secondo anniversario è certamente più rilevante[1].

 

Spiritualità invece di teologia morale?

Con la rivoluzione infatti si determinò un esodo verso l’Occidente di teologi e intellettuali russi che tra fine ‘800 e inizio ‘900 avevano attraversato il positivismo e il marxismo, per ritrovare infine l’Ortodossia e la critica antioccidentale lasciata in eredità dal pensiero slavofilo. Frutto eminente di questo esodo fu la costituzione dell’Istituto di Teologia ortodossa di Parigi (poi Accademia Teologica di San Sergio), ove insegnarono personaggi come N. Afanas’ev, S. Bulgakov, G. Florovsky e che divenne rapidamente il cuore di quella teologia russa della diaspora cui si deve il rinnovamento della conoscenza occidentale dell’Ortodossia. Proprio da questa teologia –pur nella varietà delle sue anime - fu subito portata avanti una critica radicale della ‘razionalistica’ articolazione occidentale delle discipline teologiche. Ad essa si opponeva un’unitaria teologia esperienziale liturgicamente nutrita, radicata nella spiritualità esicasta, in continuità con il modo patristico di fare teologia. La critica colpiva non solo la teologia occidentale ma anche la teologia accademica ortodossa delle scuole nazionali slave, romene e greche, accusate di essere troppo influenzate dal razionalismo occidentale e di essersi allontanate dall’autenticità ortodossa arrivando anche ad elaborare manuali di teologia morale sul modello occidentale.

Per alcuni decenni così, in particolare tra gli anni ’40 e ’70 del secolo scorso, diventò una specie di luogo comune l’affermazione che l’ortodossia autentica non avesse una teologia morale razionalmente strutturata e organica, ma identificasse piuttosto la riflessione teologico-morale con la spiritualità cristocentrica e con il cammino mistagogico della divinizzazione in Cristo.

 

Una svolta: le etiche applicate

Pur essendoci molto di vero in questo, tuttavia dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso qualcosa è andato cambiando. Sempre di più le questioni dell’etica applicata e il loro rilievo crescente hanno imposto a chiese e teologi ortodossi di prendere posizione e di dare risposte, prima nei paesi occidentali – ove è fiorita via via un’ortodossia libera – , poi dopo la caduta del muro di Berlino (novembre 1989) nei paesi del cosiddetto socialismo reale.

Alla fine degli anni ’70 negli Stati Uniti la problematica bioetica comincia a coinvolgere i teologi ortodossi e le giurisdizioni ortodosse americane. Contemporaneamente la problematica della salvaguardia del creato e dell’ecologia – anche tramite il Consiglio Ecumenico delle Chiese – coinvolge sempre più autorevoli personaggi ortodossi. Non a caso sarà il patriarcato di Costantinopoli nel 1989 a proclamare il 1 settembre Giornata mondiale di preghiera per la salvaguardia del creato.

E poi, a partire proprio dal 1989, le questioni sociali, politiche, economiche, familiari e sessuali (problema del gender) sempre più diventano oggetto della riflessione teologica non solo nella diaspora ma anche nelle varie chiese ortodosse nazionali. Problemi quali la laicità dello stato e delle sue istituzioni, la secolarizzazione della cultura e della società, la revisione critica della famiglia tradizionale e della visione della sessualità, la questione della povertà e della violenza, la serietà delle migrazioni e il ritorno di varie forme di schiavitù ecc. suscitano crescenti confronti in ambito ortodosso. Particolarmente vivo è diventato poi negli ultimi anni il dibattito sulla questione dei populismi, giacché tocca profondamente il legame storico tra ortodossia e nazione. In numerose nazioni, infatti, identità nazionale e identità ortodossa sono storicamente congiunte; l’esperienza del socialismo reale non solo non ha tolto tale coincidenza, ma ne ha rafforzato talvolta il vigore, come appare assai chiaramente in Russia. Non mancano naturalmente teologi e gruppi ortodossi che offrono approcci diversi, specialmente nella diaspora nordamericana ma anche in paesi ortodossi europei (Grecia in primis).

 

Una discussione ampia e variegata

La discussione intraortodossa è ampia e con varietà di posizioni, con un forte coinvolgimento dei teologi laici – come è tradizionale nell’Ortodossia – con intervento di vari soggetti magisteriali, fino ai messaggi e documenti votati e pubblicati dal Sinodo panortodosso di Creta nel giugno scorso.

Il nuovo orizzonte delineato dall’emergere delle questioni dell’etica applicata ha portato allo sviluppo di una riflessione etica più formale e inevitabilmente più attenta alle esigenze razionali. S.S.Harakas, uno dei moralisti ortodossi più autorevoli nella seconda metà del secolo scorso, ha perciò elaborato una dottrina del moral decision making ovvero del discernimento morale sulla base di precisi criteri teologici ed etico-razionali. Altri autori – non ultimo T. Engelhardt, diventato ortodosso nel 1992 – hanno cercato di delineare il carattere dell’etica ortodossa nel contesto delle varie etiche confessionali, in genere sottolineandone il deciso carattere teologico e personalistico, il radicamento liturgico-sacramentale anche sul piano normativo, la strutturazione ecclesiale del discernimento della coscienza. Da parte di altri autori ancora, come J. Woodill, si è presentata l’etica ortodossa come un’esemplare etica delle virtù, dalla forte caratterizzazione comunitaria.

 

Un profilo teologico ed ecclesiale

Il ritorno della ragione etica nella riflessione morale ortodossa, provocata – come detto - dall’urgenza dell’etica applicata, non ha perso tuttavia l’apporto della teologia russa della diaspora e si è congiunto di fatto con la forte rivendicazione del carattere teologico ed ecclesiale della morale ortodossa. Una peculiarità questa che emerge costantemente e che è spesso prospettata come irrinunciabile dagli ortodossi a livello del dialogo etico ecumenico.

Solo due esempi, coi quali concludiamo questa presentazione.

  1. Quando S.S. Harakas si è posto in un articolo la questione di quello che l’etica ortodossa poteva offrire al movimento ecumenico ha risposto che non era tanto la sua modalità di risoluzione dei problemi, quanto il suo orizzonte di fede: «L’etica ortodossa può fare questo perché comprende che la fonte dell’etica cristiana non è in sé stessa, non in una filosofia, non nella squallida storia di millenni di ingiustizia perpetrata nel nome della “giustizia riparativa”, non nell’umana esperienza in generale, non nella moltiplicazione di “teologie dal basso”, ma nella luce della fede cristiana storica delle Scritture e della autentica Sacra Tradizione»[2].
  2. Nel 2013 Faith and Order ha pubblicato uno Study Document dal titolo Moral Discernment in the Churches. Ebbene, il lettore troverà subito all’inizio un testo in corsivo intitolato Orthodox Addendum [3]nel quale i componenti ortodossi della Commissione che ha elaborato il testo prendono le distanze dalla metodologia adottata nel testo stesso, vedendovi un approccio relativistico non corrispondente alla loro tradizione. In particolare si legge nell’Addendum: «Lo stesso approccio relativistico è applicato anche alle fonti, ma per gli ortodossi ci sono tre fonti originarie fondamentali per il discernimento morale: la Santa Trinità, la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione. Queste fonti non possono essere poste sullo stesso piano delle altre»[4].

 

[1] Per un inquadramento più ampio di tutto quel che qui si scrive rinvio al mio: L’etica ortodossa. Storia, fonti, identità, Cittadella Editrice, Assisi 2010.

[2] S.S.HARAKAS, What Orthodox Christian Ethics Can Offer Ecumenism in Journal of Ecumenical Studies  45 (2010) .3 (Summer), pp. 376-378, in particolare p. 378.

[3] Moral Discernment in the Churches. A Study Document, World Council of Churches Publications, Geneva 2013, 3-4 (Faith and Order Paper no.215). A p.4, n.1 si dice che tale Addendum è sostenuto anche dai cattolici.

[4]  Moral Discernment in the Churches. A Study Document,  4.

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