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Moralia Dialoghi

Migranti: accogliere, proteggere, promuovere, integrare

Introduzione | Quattro gesti e quattro virtù

Di fonte alla situazione di tanti migranti e rifugiati, «la nostra comune risposta si potrebbe articolare attorno a quattro verbi fondati sui principi della dottrina della Chiesa: accogliere, proteggere, promuovere e integrare», dice papa Francesco nel suo Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2018 (che sarà celebrato il 14 gennaio). A questi quattro, possiamo aggiungere il “perorare”, l’advocacy a livello internazionale, anche se in teoria rientrerebbe nel “promuovere”. Infatti, nella conclusione del Messaggio, Francesco menziona e sostiene il progetto dei “Global Compact”, gli accordi internazionali per migliorare la gestione mondiale della mobilità umana e lottare contro lo sfruttamento dei migranti e dei rifugiati. Questi accordi dovranno essere discussi all’ONU nel 2018, ma il loro futuro è stato recentemente messo in discussione dalla decisione di Donald Trump di ritirare gli USA da questi progetti.

Un tema importante

Per il papa, il tema è di grande importanza; lo è anche per noi, moralisti, e per tanti intellettuali cattolici, e per questo motivo abbiamo deciso di dedicarvi il dossier di “Dialoghi Moralia” del 2018. Nell’udienza del 4 novembre 2017, al termine di un convegno internazionale organizzato dalla Federazione internazionale delle università cattoliche, Francesco invitò gli intellettuali cattolici e le università che si chiamano “cattoliche” ad armonizzare la ricerca scientifica con la riflessione teologica sulla mobilità umana, ma anche ad impegnarsi nell’insegnamento e nella promozione sociale, sia presso le persone migranti e rifugiati che presso i loro studenti universitari e i cittadini, per aiutare a tutti a meglio capire il fenomeno. Oltre studiare le cause e cercare soluzioni, è “importante riflettere sulle reazioni negative di principio, a volte anche discriminatorie e xenofobe, che l’accoglienza dei migranti sta suscitando in Paesi di antica tradizione cristiana, per proporre itinerari di formazione delle coscienze”.

Anche se sulla nostra sponda del Mediterraneo, gli arrivi irregolari per mare dalla Libia sono molto diminuiti quest’anno, in Italia, a Malta e praticamente dappertutto nel modo la paura dello straniero continua a dettare molte delle decisioni politiche. In teoria, adesso che i miliziani libici stanno “collaborando” con l’Europa per intrappolare migranti e rifugiati in Libia, la guardia costiera italiana “opera” anche nelle acque libiche, e si è trovato il modo di “controllare” le ONG, dovremmo sentirci più sicuri. Il fatto delle aste per la vendita di schiavi in Libia fa scalpore per qualche istante, e poi cambiamo canale, o ci arriva un messaggino seducente sullo smartphone che ci fa accedere ad un altro blog menzognero ideato dai mercanti di paura, alle volte persino con delle immagini pie accanto, come se la Madonna sostenesse le teorie del complotto e le bufale a scapito dei rifugiati. Certo, il problema non esiste solo nei paesi del centro del Mediterraneo; la paura dello straniero ha dominato i notiziari del 2017, da Londra a Varsavia, da Naypyidaw a Washington DC, da Canberra a Pretoria, da Budapest a Riad, da Gerusalemme a Pyongyang.

Vivere le virtù politiche nel mercato delle paure

In questo scenario politico, i quattro verbi che ci propone il papa ci spingono a dei gesti profetici e radicali nella loro umanità, ma anche ad una pratica costante e stabile di quattro virtù politiche. Accogliere il forestiero significa vivere l’ospitalità. Proteggere l’altro vuole dire esercitarsi nella virtù della tutela, quella forma di fortezza che nasce dell’amore della giustizia e l’attenzione al debole e l’indifeso. Promuovere chi si presenta come diverso implica la parresiaquell’altra fortezza che permette di dire la verità e lottare contro la menzogna, ma anche avere l’audacia di creare spazi di parola dove le persone possono raccontarsi e dialogare schiettamente. Infine, integrare lo straniero significa impegnarsi nella fratellanza che accorcia le distanze, e ampliare il “noi” perché possa includere altri, negoziando pazientemente un adattamento reciproco.

Una società e una civiltà che non conosce l’ospitalità, la tutela, la parresia e la fratellanza non può sussistere, ma vivere queste virtù giorno dopo giorno non è cosa da niente. In fondo, ci vuole la fede per sostenerle, per lo meno nel senso di quella stabile fiducia antropologica nel bene e nella giustizia che ci permette di superare la paura dell’altro ed aprirsi all’ascolto e alla collaborazione con l’altro fedele, l’altro cittadino, l’altro straniero, e finalmente con quell’Altro che è Dio.

Una proposta troppo ingenua? Una visione eccessivamente utopica? Nelle prossime settimana daremo la parola a teologi, sociologi ed altri esperti del mondo della mobilità umana per vedere quale peso si può dare alle parole di papa Francesco.

Amare il forestiero come te stesso... perché anche voi foste forestieri

Una citazione biblica cliché e logorata?

Il Messaggio di Francesco per la Giornata del rifugiato 2018 introduce una citazione delle antiche Scritture ebraiche, Levitico 19,34, sulla quale è opportuno svolgere qualche riflessione per il rischio di ridurre tale riferimento a una sorta di “luogo” così “comune” da non destare più interesse, da non interrompere pensieri consolidati, senza un adeguato ritorno critico.[1]

Il libro del Levitico

Il libro del Levitico, parte integrante della Torah ebraica, tra altri temi, intende rendere consapevole il popolo di Israele della propria identità. Essa può essere custodita ritornando all’alleanza, che non solo comporta una particolare fedeltà a Dio, ma lo sforzo di ridefinire la qualità del legame sociale e del patto che lega la comunità anche agli stranieri dimoranti nella sua terra. La memoria della “differenza” di Israele rispetto alle altre nazioni percorre a livello profondo la minuta precettistica legale contenuta nel libro biblico. La santità del popolo di Dio, come realtà “messa a parte” rispetto alle altre genti, riproduce, all’interno della comunità, un ethos di fratellanza la cui formulazione sintetica è ben nota: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18b).

Al centro dell’esigenza di santità si radica la memoria continua del “da dove veniamo”, di “ciò che eravamo” prima del dono di Dio: la “dura schiavitù” dell’Egitto, una condizione alienata in cui non poter apprezzare il bene condiviso dell’umanità. La pratica dell’ospitalità nei confronti dell’altro, lo straniero, diventa così occasione per non dimenticare la propria origine, esigenza di riconoscenza per quello che Israele è grazie all’agire divino. Per questo chi trova dimora in Israele è destinatario della stessa benevolenza riservata ai membri dell’alleanza: «il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19, 34).

Nell’accostamento a questa duplice espressione dell’amore risulta significativo come la prima formulazione (Lv 19,18b) si fondi a partire da se stessa. Sancisce la “naturalità” di un rapporto amicale, quello per cui “il simile ama il proprio simile”, tra i membri del popolo dell’alleanza. La seconda (Lv 19,34), invece, ha bisogno di una motivazione. Ma tale motivazione non è estrinseca, stabilita in forza di una legislazione positiva, bensì risulta iscritta doppiamente nella carne e nella storia di Israele: l’amore spontaneo per il proprio figlio («lo tratterete come colui che è nato tra voi») e la memoria degli inizi («anche voi foste forestieri nel paese di Egitto»).

Oltre l’equità umana

La prossimità nei confronti dello straniero non corrisponde a una semplice esigenza di equità umana. Secondo l’antico testo legislativo ebraico, contravvenirvi significa corrompere radicalmente il progetto di libertà che scaturisce dal dono di JHWH e la sua giustizia nel dispensare a ogni membro della comunità dell’alleanza la possibilità di vivere in una terra che non è frutto di conquista umana, ma è offerta da Dio. Il baricentro interpretativo è nella prima parola del Decalogo, che impone il riconoscimento dell’Unico Signore, JHWH. Esso si salda con le forme concrete del riconoscimento del “prossimo”, anche quando ha il volto dello straniero dimorante nella terra di Israele, con una potenziale apertura in chiave universalistica.

La pratica dell’ospitalità nei confronti dello straniero consente di mantenere viva la memoria di sé, della precarietà costitutiva di ciascuno. La vita di fede si apre a una storia di relazioni in cui la cura per la prossimità invera l’atto stesso del culto che riconosce l’Unico. Tuttavia l’ospitalità, lungi dall’essere una pura predisposizione caratteriale, risulta un percorso antropologico impegnativo in quanto non vi è in gioco solo il superamento della difficoltà che l’altro porta con sé, ma l’idea che la sua presenza venga a minacciare gli equilibri delle relazioni intersoggettive e i più complessivi assetti della società.

Oltre gli irenismi

Nella memoria dei credenti l’accoglienza dell’altro è già ripulita da quei facili e superficiali irenismi, che ne fanno la parodia, spesso giocata a fini ideologici e politici, per la manipolazione dell’opinione pubblica. Risulta essere azione tesa alla condivisione di un bene difficile a motivo della reale distanza tra me e l’altro, che domanda la pazienza, la tenacia e la mitezza di essere colmata per stemperare l’ostilità iniziale. Tuttavia tale ostilità non è perfettamente annullabile, non tanto a livello di azioni sociali, civili e politiche, ma per quel valore che continua ad avere in chiave antropologica. Ogni incontro tra soggetti umani si mantiene nella sua peculiare verità solo là dove si considera che l’altro non è realtà assimilabile e colonizzabile al mio progetto su di lui. L’altro nella sua soggettività uguale e differente resiste a ogni progetto assimilativo con la consistenza della propria libertà. Pertanto il volto dell’altro rappresenta sempre un monito con il suo opporsi a ogni dinamica predatoria e di assimilazione: quello di limitare le pretese di un io dispotico ed egemone.

L’ospitalità nei confronti del nuovo arrivante, sia esso il profugo politico o chi è costretto a lasciare la propria terra a motivo dell’impoverimento ambientale, introduce un principio che, senza cessare di essere un elemento che intacca equilibri interni alle relazioni intersoggettive, come quelle di più vasta portata sociale, ne può rappresentare anche un principio di rigenerazione. Lo “straniero” da accogliere e proteggere, da promuovere e integrare, prima ancora che un problema da risolvere, senza peraltro annullare l’importanza di tale questione, è l’occasione che si offre per un decisivo accesso ai parametri che definiscono l’umano comune.

L’altro che mi mette in discussione

L’altro è portatore di una domanda che non è solo richiesta di un tetto e di un cibo, da contabilizzare secondo pur legittime esigenze di sostenibilità economica. L’interrogativo più radicale nella pratica dell’accoglienza riporta a una permanente educazione al senso dell’umano. “Dare un luogo” all’altro straniero non comporta solo l’allestimento di strutture civili di accoglienza, ma accedere a una dimensione ancora ignota o dimenticata del senso del nostro essere. Una dimensione pericolosa, perché immediatamente destabilizzante secondo i calcoli dettati da una prudenza che può pretestuosamente prendere il volto ambiguo della diffidenza. Diffidenza non solo per l’insidia oggettiva recata dall’altro, ma perché più radicalmente intacca gli equilibri raggiunti, che spesso sono la maschera di un’indisponibilità di fondo a rinnovare in modo positivo le esistenze personali e le strutture sociali, compresa la comunità cristiana.

Condizione indispensabile è di “vedere lo straniero”, di farlo uscire dalla sua condizione di “invisibilità”, che poi è tale solo perché “non si vuole vedere”. La miopia sociale esprime un difetto di lungimiranza e porta a definire come urgenza improvvisa quello che è piuttosto frutto di opzioni e atteggiamenti politici pregressi. Il superamento dell’indifferenza non è senza fatica quando, come suggerito dal testo biblico, invita a mettersi nei panni e nelle condizioni esistenziali dello straniero.

Stranieri a noi stessi

Dentro ciascuno abita uno straniero, come ricorda la filosofa Julia Kristeva: «lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità», così come al cuore della coscienza di Israele c’è la permanente erranza della condizione esodica. Così come dentro le nostre culture, arroccate sul baluardo della propria identità, abita già l’ospite inquietante, che non alimenta solo le paure, ma infrange le presunte certezze. Tale immedesimazione pone già le premesse per l’ulteriore domanda: quando uno straniero cessa di essere tale? Quando si lascia assimilare dentro la prospettiva omologante di una cultura superiore o vincente? Quando si definiscono per lui precisi criteri giuridici di inserimento? Quando l’acquisita cittadinanza pone termine al confronto tra un “noi” e un “loro”? L’uguaglianza resta un bene fragile, che si conferma o dissolve nella qualità delle relazioni effettive e quotidiane che diventano pratiche condivise. E che esigono la fatica del dialogo per comprendere il dono di ciascuno e, più radicalmente, il dono che è ciascuno.

 

 

[1] Oltre al testo del Levitico citato nel Discorso di papa Francesco, analoghe formule anche in Dt 10,18-19 (con la significativa espressione «[Dio] ama il forestiero»); 24,17-18; Es 22,20; 23,9 («anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto»).

Accogliere: spunti per un’ospitalità reciproca, ecclesiale e teologica

Il costante e insistente appello di papa Francesco ad accogliere migranti e rifugiati rivolto alla società e soprattutto alla Chiesa (parrocchie, comunità religiose, monasteri, santuari…) avviene in un momento in cui la paura sembra si stia affermando come il sentimento dominante nei confronti di queste persone in Europa, come dimostrato dalle più recenti ricerche e sondaggi condotte in tutto il continente, Italia compresa. Ricorrendo al linguaggio della teologa Susanna Snyder, pare che in questa particolare congiuntura storica l’ecologia della paura abbia il sopravvento sull’ecologia della fede.

Un’“ecologia” della paura?

La paura è certamente comprensibile in un periodo di trasformazione demografica, sociale, culturale, economica e religiosa come quello attuale e siamo certamente chiamati a coglierne le origini e motivazioni che, a dire il vero, non sempre sono supportate dai fatti. Quest’ultimo elemento conta fino a un certo punto perché ci accorgiamo sempre di più nelle nostre conversazioni quotidiane e dibattiti pubblici che le percezioni e le emozioni nei confronti di alcune categorie di migranti sono più forti dei fatti. Questa consapevolezza deve orientare la nostra riflessione pastorale e teologica sul tema.

Bisogna anche aggiungere che alle volte la paura diventa un “sentimento di convenienza”, una buona scusa per chiudere gli occhi di fronte alla realtà, per nascondere egoismi personali e collettivi ed evitare di affrontare con determinazione e serietà le cause e conseguenze dei cambiamenti che stanno avvenendo nelle nostre società e soprattutto ricercare e individuare le nostre complicità rispetto a situazioni delle quali noi stessi siamo responsabili, almeno parzialmente. In questo contesto anche la stessa identità cristiana viene spesso usata per alimentare l’ecologia della paura specialmente da persone che si ergono a paladini di un cristianesimo di facciata che ha poco a che fare con la radicalità esigente e mite del Vangelo. La domanda da porsi in questo caso è: ma accogliere non è parte integrale dell’identità di chi si proclama discepolo di Gesù Cristo? 

Un’“ecologia” della fiducia e della fede

Il messaggio di papa Francesco ci aiuta non solo a ritrovare la centralità dell’accoglienza nella vita cristiana, ma anche a intenderla come l’inizio di un processo integrale che comprende passaggi altrettanto fondamentali come proteggere, promuovere ed integrare. Questo vuol dire che l’accoglienza o l’ospitalità non è scollegata dagli altri tre elementi, ma è parte costitutiva di un percorso che deve portare la persona a partecipare pienamente alla vita della società e della Chiesa e a dare il proprio contributo alla creazione di una comunità aperta, inclusiva e giusta. In altre parole, se non si capisce che l’ospitalità deve essere orientata all’integrazione della persona in una comunità, si rischia di continuare con una pratica dell’accoglienza che si svolge ai margini della società e quindi è destinata a creare persone marginali e ad alimentare la cultura dello scarto denunciata sia da intellettuali come Zygmunt Bauman che dallo stesso papa Francesco.

L’altro rischio è quello di limitarsi ad una “prima accoglienza”, cioè ad una accoglienza “ad orologeria”, a “breve scadenza” che pensa e spera di aver risolto la “questione migranti” e delle società che li ospitano in pochi mesi, senza aver avviato un impegnativo processo di conoscenza e comprensione reciproca che deve condurre ad una convivenza armoniosa ed arricchente, un percorso che richiede tempo, pazienza, e dedizione; un percorso spesso faticoso costellato di successi, ma anche di criticità e fallimenti. Non dimentichiamo che l’accoglienza è sempre un incontro tra sconosciuti che devono imparare a conoscersi, a comprendersi e a convivere e quindi include l’esperienza di ospitare ed essere ospitati. Questa reciprocità ci permette di non ridurre l’ospitalità alla pretesa di aiutare e risolvere problemi degli altri da una posizione di superiorità, ma la converte nell’atteggiamento di chi entra in punta di piedi nel mondo dell’altro, con l’intenzione di non condividere principalmente la propria ricchezza materiale, ma soprattutto quella umana e spirituale, di rendere la persona partecipe della propria vita con le sue gioie e dolori.

Migrazioni e cattolicità: una prospettiva ecclesiale

Da una prospettiva ecclesiale l’attuale spostamento dell’asse del cristianesimo verso il Sud globale diventa il contesto nel quale siamo chiamati a interpretare l’accoglienza. La stessa elezione del card. Jorge Mario Bergoglio, argentino e figlio di emigranti italiani, a vescovo di Roma può essere letta come il simbolo di un cristianesimo sempre meno occidentale e sempre più globale e influenzato nella storia passata e recente da importanti flussi migratori. Non bisogna andare lontano per osservare le conseguenze di questa trasformazione, che si fa ancora fatica ad accettare anche in campo teologico: il sociologo Enzo Pace ci fa osservare che la vera novità in un paese di secolare tradizione cattolica come l’Italia non è tanto la presenza significativa dell’islam, ma la realtà oramai affermata di un cristianesimo plurale che spesso rimane invisibile alla maggior parte delle persone, credenti o non.

In questo contesto l’ospitalità diventa un canale privilegiato per la cattolicità e l’ecumenismo: l’accoglienza del cristiano di cultura, rito e tradizione diversa ci porta a divenire sempre più consapevoli della qualità della chiesa che ci insegna che siamo una piccola parte di un tutto caratterizzato allo stesso tempo da una straordinaria diversità e una radicale tensione verso l’unità nella Trinità. Nell’era del cristianesimo globale l’accoglienza ci conduce a diventare cristiani mondiali, membri di «un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale» (EG 111).

L’ospitalità: un tempo e un luogo opportuno per conoscere Dio

L’episodio di Abramo che accoglie i tre pellegrini presso le querce di Mamre (cf. Gn 18, 1-15), il passaggio in cui Gesù chiede l’ospitalità di Zaccheo (cf. Lc 19, 1-10) e l’incontro di Gesù con la donna cananea che chiede insistentemente di essere ascoltata (cf. Mt 15, 21-28) sono tre esempi biblici in cui le esperienze di accogliere ed essere accolti si confondono e completano e in questo processo qualcosa di molto più importante avviene: la Buona Notizia irrompe inattesa e diventa realtà nell’annuncio della nascita del figlio di Abramo e Sara e nella conversione di Zaccheo e dello stesso Gesù.

L’ospitalità, quindi, non deve essere considerata solo come una virtù cristiana e politica, ma il tempo (kairos) e lo spazio dove, superata la paura e mancanza di conoscenza dell’altro, Dio si rivela inaspettatamente trasformando la vita delle persone. L’accoglienza diventa, quindi, un locus theologicus, il luogo in cui accogliendoci reciprocamente accogliamo in realtà Dio e i suoi angeli, anche senza rendercene conto (cf. Eb 13, 2).

Proteggere: dare asilo e non solo asilo

Proteggere… chi?

Come destinatari del messaggio del papa, tutti noi siamo chiamati a una responsabilità morale verso «i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta», in quanto «comunità che li accoglie».

Se guardiamo chi è arrivato nel nostro paese nel 2017, via mare o via terra, i volti sono in maggioranza di giovani uomini ma con un numero in crescita, negli ultimi anni, di donne e di minori soli, non accompagnati. Per entrare più nel dettaglio, secondo i dati del Ministero dell'Interno a inizio novembre 2017 risultano essere sbarcate poco più di 110.000 persone mentre le domande d'asilo risultano essere circa 115.000.

Più dell'80% di queste richieste sono di uomini tra i 15 e i 35 anni,[1] mentre circa il 15% sono di donne per la maggioranza tra i 18 e i 35 anni.[2]

Nello stesso periodo, i minori sbarcati da soli sono purtroppo già quasi 15.000, di cui circa 8.000 hanno fatto domanda d'asilo. Tra i minori non accompagnati la stragrande maggioranza sono ragazzi, più del 92%,[3] e circa il 7% è composto di ragazze.[4] La maggioranza di questi hanno tra i 14 e i 17 anni: minori soli e quindi vulnerabili che non devono però rimanere senza voce e senza diritti. Sono poche in proporzione le famiglie intere, in fuga da contesti difficili, che sbarcano in Italia.

Proteggere… come?

Proteggere, nel suo significato più nobile, vuol dire innanzi tutto riconoscere l’umanità di chi ci troviamo di fronte nel suo volto. Può essere una persona in difficoltà o che ha momentaneamente bisogno di aiuto, ma non perde per questo la sua dignità. Anzi, proprio la sua momentanea fragilità dovrebbe fare aumentare il rispetto e l'attenzione nei suoi confronti. Chiediamoci se questo sta avvenendo nel mondo, in Europa e nel nostro paese.

Se osserviamo il numero di conflitti nel mondo, gli interessi economici come la vendita delle armi e le politiche messe in atto, non sembra che la preoccupazione sia la tutela delle persone in difficoltà.

Anche se andiamo a vedere in dettaglio come vengono spesi i fondi per la cooperazione internazionale, che dovrebbe sostenere lo sviluppo dei paesi più poveri e in situazioni di crisi, abbiamo delle brutte sorprese. Troviamo ad esempio che la spesa sia italiana che europea per la cooperazione, negli ultimi anni, è stata più piegata a logiche securitarie che destinata a progetti di aiuto alle persone. Le risorse sono servite molto di più a rafforzare le frontiere e il monitoraggio di chi passa da un paese all'altro che per costruire pozzi, strade, ospedali…

Si dice "aiutiamoli a casa loro", ma i fatti contano più delle parole: la modesta quantità di fondi che destiniamo alla cooperazione e il loro impiego di altra natura dicono con evidenza che siamo molto più preoccupati di non fare arrivare da noi le persone in fuga che di aiutarle o proteggerle.

Si dice che si vuole contrastare lo sfruttamento di queste persone da parte dei trafficanti umani e che non si vuole che muoiano in mare. Ma quali alternative diamo alle persone che scappano da situazioni di conflitto, guerre e povertà per arrivare in maniera legale in Europa o nel nostro Paese? Molto poche o nessuna, visto che non è quasi possibile ottenere un visto per arrivare in sicurezza, che si cerchino protezione o migliori condizioni di vita.

Proteggerci… da loro?

In Europa, a partire da marzo 2016, sono entrate meno persone in cerca di protezione perché si è stabilito l'accordo con la Turchia, mentre in Italia a partire da agosto 2017 sono diminuite le persone che sbarcano perché si è siglato un memorandum con la Libia (nonostante la sua grave situazione di instabilità politica). Peraltro la maggioranza dell'opinione pubblica e dei governi europei, come quello italiano, sono stati contenti di questa diminuzione: come se questi numeri minori di entrate in Europa o di sbarchi in Italia significassero meno persone in difficoltà o che muoiono. In realtà le cose stanno esattamente all'opposto, ma di nuovo si svela che la nostra preoccupazione non è come stanno le persone. L’importante non è ascoltare da dove queste sono partite, cosa hanno vissuto durante i viaggi nelle mani dei trafficanti o nei paesi che hanno dovuto attraversare, cosa vivono adesso in Turchia o in Libia. La nostra preoccupazione e quindi i nostri sforzi e le risorse vanno invece nella direzione di rendere lungo, difficile e pericoloso il percorso per entrare nel nostro mondo.

Se poi guardiamo chi comunque riesce ad arrivare, secondo un recente rapporto di Oxfam, in Italia le persone partecipano a una sorta di “lotteria”. Si alternano infatti esperienze molto positive ad altre altamente negative, dal riconoscimento della protezione o di diritti più basilari fino alla qualità dell'accoglienza. Una tale varietà di risposte inducono a pensare che i diritti e l'accoglienza, più che un chiaro dispositivo di legge, nel nostro paese siano una mera possibilità che si potrà realizzare oppure no, in modo quasi casuale o arbitrario.

Infine, una volta che le persone vengono riconosciute dalle Commissioni territoriali come titolari di protezione internazionale o umanitaria (circa il 40% ce la fa) o non riconosciute (il restante 60%), si apre forse il capitolo più critico. Perché se la prima accoglienza più o meno efficiente è garantita quasi a tutti quelli che arrivano via terra o via mare, invece nella fase della domanda d'asilo le possibilità di essere accompagnati a un inserimento sociale e lavorativo si danno soltanto per pochissimi, e cosi per la maggioranza di chi è stato riconosciuto (oltre che per chi non lo è stato) si apre la via maestra della marginalità, che spesso porta alla precarietà abitativa e allo sfruttamento lavorativo.

Non proteggerci dal loro volto…

Allora, in tutto questo contesto, proteggere vuol dire innanzi tutto non voltare la testa, non girare lo sguardo da un’altra parte ma guardare negli occhi chi scappa, chi è in viaggio e chi arriva.

Sappiamo che oggi tocca a queste persone, anche a causa delle nostre politiche, ma domani potrebbe toccare a noi. Sappiamo che nell’incontro e nelle risposte che sapremo dare, anche in termini di azioni concrete e riconoscimento di diritti, non si gioca soltanto quello che possiamo fare per loro ma anche che tipo di persone siamo noi, in cosa crediamo e quali sono o non sono i nostri valori. Sappiamo che né il mondo, né l'Europa e neanche il nostro paese stanno bene e diventa urgente ed imperativo cominciare a fare meglio.

 

 

 

[1] Prime cinque nazionalità di questi uomini: Nigeria, Guinea e Costa d'Avorio, Bangladesh e Mali.

[2] Prime cinque nazionalità di queste donne: Nigeria, Costa d'Avorio ed Eritrea, Camerun e Somalia.

[3] Prime cinque nazionalità dei ragazzi minori non accompagnati, maschi: Gambia, Egitto e Guinea, Albania e Nigeria.

[4] Prime cinque nazionalità delle ragazze minori non accompagnate: Nigeria, Eritrea e Somalia, Costa d'Avorio e Albania.

Promuovere: una sfida complessa

Il breve ma denso Messaggio di papa Francesco per la giornata mondiale del migrante e del rifugiato trova la sua spina dorsale nei quattro verbi che lo articolano, dopo la breve introduzione, che segnala due criteri teologici per leggere la vicenda dei migranti, quello dei “segni dei tempi” e quello dell’identificazione del migrante che bussa alla nostra porta con Cristo stesso. I quattro verbi sono: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Se letti in relazione essi costituiscono un vero e proprio climax ascendente, che indica un crescente impegno e coinvolgimento da parte delle comunità cristiane, chiamate a riconoscere nei rifugiati non solo una provocazione etica, ma una vera e propria occasione teologica, in linea con l'apocalisse del capitolo 25 di Matteo.

In questo movimento di crescita e passaggio continuo, ci soffermiamo sul terzo verbo: promuovere.

La partecipazione attiva dell’altro al percorso verso l'integrazione

Dobbiamo osservare che esso sorge, quasi spontaneamente, dalla successione dei due precedenti: l'accoglienza e la protezione offerta ai migranti si rivelerebbe incompiuta se non portasse alla promozione della loro stessa umanità.

Il verbo promuovere segna, in un certo senso, una svolta nel percorso che papa Francesco immagina, perché se nelle prime due situazioni (accogliere e proteggere) i migranti possono essere visti principalmente come i recettori passivi della carità altrui, qui nel promuovere si segnala l'importanza di una loro partecipazione attiva al percorso che li porterà verso l'integrazione.

L'approccio di papa Francesco alla promozione si segnala per il suo orientamento globale («realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità») e reciproco («tutti i migranti e i rifugiati così come le comunità che li accolgono»), che segnala il valore riflessivo della promozione, che ricade anche su coloro che se ne fanno attori.

Il messaggio per la giornata dei migranti non esita, poi, a muoversi verso orizzonti concreti:

  • la libertà religiosa, che implica la libertà di pratica del proprio culto;
  • la valorizzazione delle competenze lavorative;
  • la formazione linguistica e quella ad una cittadinanza attiva;
  • l'incentivo al ricongiungimento familiare;
  • le specifiche attenzioni che meritano i minori e i migranti portatori di disabilità.

Infine il terzo paragrafo del messaggio richiama l'esigenza di supportare i paesi in via di sviluppo che accolgono rifugiati e migranti, senza dimenticare le comunità locali che sono soggetto di tale ospitalità.

Promuovere: un verbo dense e complesso

Questa rapida scaletta ci permette di cogliere la densità e complessità del verbo promuovere, che disegna la figura di un migrante che viene aiutato a compiere passi concreti per la rigenerazione della propria umanità, sia in termini materiali (il lavoro, che viene definito dal Messaggio come «destinato ad unire i popoli»), che affettivi (la famiglia «luogo e risorsa della cultura della vita e fattore di integrazione di valori»), che socio-politici (lingua e cittadinanza), che spirituali (la professione e la pratica della propria religione). Promuovere significa quindi creare le condizioni perché il migrante possa avere una vita piena e compiuta, attraverso la quale si rende compartecipe della costruzione della società che lo accoglie, superando, quindi, ogni atteggiamento paternalistico o assistenzialistico nei suoi confronti.

È logico che a questo verbo promuovere, faccia quindi seguito, come ultima tappa del percorso ideale, il verbo integrare.

A questo punto non solo la mappa dei valori è chiara, ma anche l'orizzonte pratico entro cui si colloca la promozione dei migranti e dei rifugiati secondo papa Francesco, un orizzonte lineare e allo stesso tempo ricco di suggestioni e proposte concrete.

Misurare la distanza

Che considerazioni possiamo trarre da questo quadro, che non si limitino ad uno scontato apprezzamento per l'ampiezza di orizzonti del Messaggio papale? Una prima considerazione potrebbe essere definita come un “misurare la distanza”. Papa Francesco propone un modello di promozione ricco di idealità, ma assolutamente non utopico, basato sulla valorizzazione di pratiche e strumenti già esistenti. Che cosa impedisce di farlo diventare un programma di azione?

Forse il lato negativo, se così si può definire, di questa parte del Messaggio è proprio quella di farci percepire come le nostre società Nord-euro-occidentali fatichino a concretizzare prassi di promozione dei migranti e rifugiati, perché faticano a percepire la promozione come un valore, un valore universale non soltanto dedicato a migranti e rifugiati. Se è vero, come lo stesso papa ha più volte ricordato, che nelle nostre società prevale la “cultura dello scarto”, dello scarto antropologico, è chiaro che la promozione dell'umanità dell'essere umano, in particolare di quello marginale, da qualsiasi causa derivi la sua marginalità, non è il valore di riferimento.

Micro-pratiche che contraddicono la “cultura dello scarto”

La seconda considerazione nasce dalla prima, preso atto che promuovere è un verbo che oggi si coniuga più in termini oggettuali (promuovere un prodotto) che antropologici (promuovere la dignità delle persone), come non fermarsi ad una dolente considerazione del fallimento antropologico del nostro stile di vita? Credo che questo sia possibile attraverso quella che definirei una “decostruzione della complessità”, cioè, in termini più semplici, l'individuazione di quelle micro-pratiche che contraddicono concretamente la “cultura dello scarto” e mantengono uno spazio aperto ad autentiche esperienze di promozione umana.

Si tratta cioè di quelle forme di prossimità concreta che muovono in una delle tante direzioni indicate dal Messaggio, la pratica del dialogo interreligioso ed ecumenico, che si apre a forme inedite di ospitalità, i percorsi di inserimento lavorativo per i migranti, che anche alcune pubbliche amministrazioni promuovono, i corsi di italiano offerti da enti pubblici e privati, da movimenti e realtà ecclesiali e non, i corridoi umanitari, che favoriscono l'immigrazione di interi gruppi familiari, per citare solo alcune realtà.

Le comunità cristiane possono offrire, in questa prospettiva, quella testimonianza profetica che fa propria la logica evangelica del lievito chiamato a fermentare la pasta. Una logica che costituisce un potente antidoto contro ogni forma di rassegnazione e pessimismo.

Integrare: offrire la cittadinanza all’altro nel contesto geopolitico e religioso di oggi

In controtendenza rispetto ai seminatori di paura papa Francesco legge la condizione dei tanti migranti e rifugiati come opportunità per costruire una società più solidale. Ne offre anche una lettura di fede scorgendo nelle migrazioni un’occasione di incontro con Gesù Cristo «il quale si identifica con lo straniero accolto o rifiutato di ogni epoca». Nel Messaggio per la giornata della Pace 2018 viene delineato un percorso in quattro verbi: accogliere, proteggere, accompagnare, integrare. «L’ultimo verbo, integrare, si pone sul piano delle opportunità di arricchimento interculturale generate dalla presenza di migranti e rifugiati».

Ambiguità e significati di un termine

L’uso delle parole riguardo ai migranti e agli stranieri è un campo delicato, spesso infido, che nasconde precomprensioni e ambiguità: anche il verbo integrare non si sottrae a possibili sviamenti. Fa infatti riferimento a “integro”, termine che denota qualcosa di compiuto, completo in se stesso, non frantumato. Evoca il divenire parte di un tutto in cui l’accento sta sull’aspetto di compattezza senza variazioni e differenze.

Integrare, in riferimento ai migranti poveri, rischia di recare in sé la precomprensione implicita che lo straniero debba essere assimilato ad una società di cui si presuppone un’identità fissata e immutabile. Lo straniero è posto così di fronte all’obbligo di adeguamento in una condizione di inferiorità. L’esigenza di integrazione può celare la pretesa di negarne l’alterità e i diritti fondamentali.

Per questo nel Messaggio il riferimento all’integrare è completato da una precisazione: non si tratta di assimilazione, piuttosto di un faticoso processo di cui si sottolinea il tratto della reciprocità. Parlando di arricchimento interculturale l’accento va sulla relazione. In contrasto con le pretese di uniformare l’altro a sé, proprie di un’attitudine imperialista e tipicamente europea, integrare indica che la sfida fondamentale sta nel dare valore alla presenza dell’altro nell’incontro, nello scambio interculturale. Per questo le migrazioni costituiscono un’opportunità. Non sono le differenze che costituiscono una minaccia alla convivenza ma la mancanza di dialogo e di scelte politiche tese a favorire il riconoscimento di dignità e l’incontro.

Stranieri residenti: per una cittadinanza solidale

Solo se si attua un’effettiva interazione, un agire insieme, si può costruire una società più solidale, in cui siano promossi i legami tra le persone, quel convivere che è partecipare ad una casa comune. Integrare apre allora a compiti inediti di trasformazione e ripensamento dei rapporti di convivenza oltre ristretti confini. Esprime l’esigenza di intendere in modo nuovo la cittadinanza comune. Questa può la condizione in cui tutti si scoprono insieme stranieri perché uniti nella medesima umanità.

Accogliere non è allora una concessione elargita all’ospite per assimilarlo o sfruttarlo ma percorso che attraversa la vita in apertura all’incontro. La presenza dell’altro non è minaccia all’integrità di culture e identità che possono fiorire solamente nei rapporti e nello scambio. È evento di reciproca responsabilità e fecondazione: tutti in modi diversi sono chiamati ad un cammino di ascolto reciproco, di cambiamento e di novità nella progettazione del vivere sociale. 

Nel tempo della paura

Tuttavia oggi parlare di integrazione è difficile nel quadro di un contesto malato, che vede diffondersi una percezione delle migrazioni come pericolo. I migranti dai mondi della miseria sono identificati come causa di mali sociali e capro espiatorio delle difficoltà economiche dei paesi ricchi del mondo.

Il fenomeno è stato affrontato nella legislazione dei paesi di arrivo per lo più come questione di sicurezza e di difesa delle frontiere e non quale processo strutturale da comprendere nelle sue cause — che coinvolgono la responsabilità dei paesi del Nord del mondo — da orientare con scelte di saggezza politica e di sguardo al futuro. Integrare richiama alla concretezza di percorsi che conducono dalla condizione di ospiti al riconoscimento come cittadini.

La concretezza di un percorso

Integrare implica un processo da considerare nella complessità e nella durata. Pone l’esigenza di un ripensamento delle forme della vita sociale. Non è un movimento a senso unico ma provoca ad un cambiamento reciproco nella relazione. Richiede tempo e la capacità di piccoli passi di fronte a problematiche diverse che richiedono competenze e continuità di attenzione.

L’impegno in vista dell’integrazione è permanente, non è limitato, va oltre il tempo dell’emergenza, del soccorso. Integrare è questione di incontro di volti. Rinvia a pensare che nei volti dei migranti sono presenti progetti di vita, sogni di emancipazione, desiderio di riconoscimento, soprattutto ricerca di condizioni di vita dignitose per sé e per i propri figli.

È un dato verificabile che i processi di integrazione incontrano esiti positivi laddove si attua un incontro diretto, opportunità di vincere pregiudizi e stereotipi nell’ascolto. Integrare in primo luogo è opera di una paziente opera di vicinanza e di educazione all’incontro. E questo si attua a livello locale dando importanza alle città come luoghi dove si rendono possibili relazioni di riconoscimento, primo antidoto anche alle derive possibili nello sfruttamento e nella criminalità.

Un percorso di scelte concrete in un contesto di disagio

Integrare è processo di scelte concrete. I processi dell’integrazione riguardano i fondamentali momenti del vivere. La casa, il lavoro, la sanità, l’istruzione, l’esperienza religiosa, i diritti sociali sono gli ambiti in cui possono declinarsi politiche di integrazione dallo sguardo lungo. Non sono percorsi facili da attuare, soprattutto nel quadro di un sistema economico dominante che produce povertà ed esclusione e in cui trova spazio la contrapposizione dei poveri: chi è schiacciato dal sistema economico che riduce il lavoro a merce e le persone a schiavi e consumatori non dovrebbe vedere la propria lotta per la dignità e equità contrapposta alla lotta di chi emigra alla ricerca di pane e dignità. Sono due movimenti che esprimono il disagio di un sistema ingiusto che richiede modi alternativi di intendere il lavoro e l’economia e creatività nell’attuarli.   

Integrare è impegno in cui rendere i soggetti quali primi responsabili offrendo sostegno nei percorsi di vita. L’aiuto nel reperimento di alloggi, nell’inserimento lavorativo, l’accompagnamento nell’apprendimento della lingua, primo passo fondamentale per comunicare, e nell’istruzione per formare competenze, la cura per coltivare la fede, sono esiti di scelte con progettualità politica, che ponga attenzione alle persone e fiducia. Ad un’opera culturale ad ampio raggio promotrice responsabilità, devono corrispondere scelte politiche che ai diversi livelli siano in grado di investire energie e risorse nel promuovere collaborazioni con le diverse presenze del tessuto sociale. In tal senso sarebbero auspicabili politiche nazionali e sovranazionali con una progettualità ad ampio respiro che siano incentivo ai livelli locali per promuovere creatività e collaborazioni nuove, per pensare a modalità alternative  di lavoro in un orizzonte solidale.

Segno dei tempi

Per i credenti le migrazioni sono un segno dei tempi che costituisce una chiamata di Dio all’interno di complessi movimenti storici, a scorgere vie per accogliere e testimoniare il Vangelo in questo tempo.

Il passo biblico «amate dunque lo straniero perché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto» (Dt 10,18) citato nel Messaggio, rinvia alla condizione di essere stranieri come propria di Israele. Lo straniero che giunge nel paese è ricordo di una condizione comune ed apre la consapevolezza di essere stranieri residenti nel tempo e sulla terra. Perciò provoca a scelte nell’orizzonte della solidarietà. Lo straniero che giunge iscrive all’interno della comunità un vuoto che è memoria dell’essere stranieri nel cammino dell’esistenza umana. L’incontro con l’altro è luogo teologico di un comunicarsi del Dio Altro che sconvolge le chiusure dei pensieri umani. In questo senso integrare è verbo che parla di cammino in cui aprirsi alla ricerca di Dio e accogliere la sua chiamata a non ridurre la vita alle dimensioni idolatriche dell’avere e del consumare, aprendola invece all’ospitalità come luogo di una visita feconda.

Nella visita di Maria a Elisabetta si può trovare racchiuso il percorso di uno stile: la vita può essere intesa come ospitalità data e ricevuta, in un farsi concreto della cura per l’altro che giunge a scorgere la nascita di una novità racchiusa nella promessa di Dio e nell’incontro. Maria che si reca a visitare Elisabetta intraprende un cammino concreto di incontro e di servizio prolungato. Riconosce, lei per prima visitata, la chiamata ad alzarsi e andare aprendosi al dono dell’ospitalità. L’incontro con l’altro è sempre scoperta che siamo stranieri a noi stessi e insieme in un cammino di ospiti nell’esistenza.

 

 

Per approfondire:

C. Monge, Stranieri con Dio. L’ospitalità nelle tradizioni dei tre monoteismi abramitici, ed. Terra Santa, Milano 2013.

D. Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, ed. Bollati Boringhieri, Torino 2017

A. Cortesi, S.Nerozzi, Migrazioni, segni dei tempi. Economia, diritti, politiche locali, ed. Nerbini Firenze 2010.

A. Cortesi, S.Nerozzi, Migrazioni incontro con l’altro. Identità, alterità, accoglienza, ed. Nerbini, Firenze 2013.

A. Cortesi, Islam, popoli in movimento, democrazia. Mediterraneo mare di confini, ed. Nerbini Firenze 2015.

A. Cortesi, C. Monge, Sulle sponde del Mediterraneo. Geopolitica, guerre, religioni, ed. Nerbini Firenze 2017.

I due Patti Globali dell’ONU

1. Origini di un’iniziativa internazionale sostenuta da papa Francesco 

L’era delle migrazioni

Nel messaggio che papa Francesco ci consegna per la Giornata del migrante e del rifugiato il 14 gennaio 2018, ci fa capire quanto profonda sia la sua «preoccupazione per la triste situazione di tanti migranti e rifugiati che fuggono dalle guerre, dalle persecuzioni, dai disastri naturali e dalla povertà». Una preoccupazione consapevole riguardo la complessità delle dinamiche globali attuali e della mobilità umana. Infatti, al giorno d’oggi, i movimenti migratori hanno raggiunto dimensioni sconosciute nei secoli precedenti, agevolati in gran misura dallo sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti.

Anche se le cause non possono essere riconducibili ad una sola origine, è indiscutibile che ci sono fattori che le causano o le acuiscono come i conflitti violenti in diverse zone del pianeta, il cambio climatico, la povertà estrema, l’insicurezza alimentare, la mancanza di un lavoro decente, le disuguaglianze, le discriminazioni, le violazioni e gli abusi dei diritti umani tra gli altri. Sono sempre più usuali flussi cospicui e di massa di profughi e di migranti irregolari che spesso si trovano in condizioni di grande vulnerabilità.

Più che mai, questi fenomeni sono presenti nella nostra vita e purtroppo la comunità internazionale nel suo insieme non riesce a trovare soluzioni alle numerose ragioni per le quali tante persone intraprendono viaggi pericolosi in cerca di sicurezza e dignità. Molti dei cosiddetti paesi del Nord del mondo sono preoccupati quasi esclusivamente nel fermare i flussi in arrivo nei loro territori, e per l’impatto che essi possono avere nelle rispettive società, piuttosto che debellare le cause profonde di tali migrazioni.

La comunità internazionale si attiva

In questo scenario e di fronte a una situazione sempre più caotica, gli stati sono arrivati alla conclusione della necessità che, in modo condiviso e consensuale, devono assumere una maggior responsabilità riguardo ai rifugiati e migranti ma anche verso le società di accoglienza. In questa direzione va l’adozione della New York Declaration for Refugees and Migrants da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in occasione del Summit sui rifugiati e i migranti del 19 settembre 2016.

Essa costituisce una presa di posizione rilevante da parte della comunità internazionale in merito ai principali temi giuridici legati ai fenomeni migratori contemporanei ed è il primo passo di un processo negoziale finalizzato all’elaborazione di un Global Compact on Refugees e di un Global Compact for safe, orderly and regular migration nel 2018.

Cos’è la Dichiarazione di New York (2016)?

Si tratta di un documento che segna un passaggio importante in ambito internazionale ed un contributo al cambiamento del paradigma sulle migrazioni degli ultimi decenni e trova collegamento con l’Agenda 2030 sugli Obiettivi di Sviluppo. In essa si fa riferimento alla responsabilità di facilitare la migrazione ordinata, sicura, regolare e responsabile e alla mobilità delle persone anche attraverso politiche migratorie programmate e ben gestite. Si esortano gli stati a riconoscere l’apporto dei migranti e rifugiati per lo sviluppo sociale e la garanzia che il loro benessere sia un tassello fondamentale dei progetti di sviluppo.

La Dichiarazione di New York sancisce che i migranti irregolari e i rifugiati abbiano bisogno di tutela e assistenza, della necessità che non siano discriminati e marginalizzati e che siano sempre rispettati i loro diritti e dignità. Essa si pronuncia in favore della lotta contro lo sfruttamento, il razzismo, l’intolleranza e la xenofobia, il salvataggio delle persone in fuga e la garanzia di mettere in atto procedure di frontiera eque ed in linea con il diritto internazionale.

Punti di forza e debolezza della Dichiarazione di New York (2016)

Purtroppo la Dichiarazione è difficilmente applicabile poiché è molto complesso distinguere le diverse categorie di migranti tra i flussi misti come sono quelli attuali. Essi sono composti da una parte da profughi in senso stretto, ma anche da altri tipi di migranti che si possono definire forzati. Persone che fuggono da luoghi esenti di opportunità alla ricerca di lavoro o persone che hanno potenzialmente diritto a qualche forma di protezione internazionale, minori non accompagnati e separati dalle famiglie, vittime di traffico e tratta per fini di sfruttamento sessuale e lavorativo.

La Dichiarazione inoltre, non ha carattere vincolante. Infatti, molte ONG e la società civile l’hanno criticata perché non stipola azioni specifiche né soluzioni pratiche per i rifugiati da attuare fin da subito, dovendo aspettare due anni prima della definizione dei Global Compact. Tanto meno assume un impegno preciso per il reinsediamento in luoghi sicuri dei 24 milioni di profughi nel mondo, che per altro si trovano circa nel 86% dei casi, in paesi a basso reddito.

Ciò nonostante, la Dichiarazione ha messo in moto un processo molto ricco e di grande fermento per la considerevole partecipazione da parte di vari attori della vita sociale che in diversi incontri e riunioni stano definendo le proprie posizioni e proposte verso i Global Compact. Nei Patti Globali comunque, non si dovrebbero formulare nuovi impegni giuridici ma piuttosto garantire l’applicazione degli obblighi di diritto umanitario internazionale, di diritti umani, dei rifugiati e del lavoro che gli stati hanno già sottoscritto e che si trovano nelle Risoluzioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite e dell’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR). Si dovrebbe stabilire tuttavia, una cornice giuridica onnicomprensiva e una serie di principi concernenti le migrazioni – anche forzate – in tutti i loro aspetti.

 

 ***

 

2. Esiste la volontà politica per fare un passo in avanti nel 2018? 

Il cammino verso i Global Compacts (2018): le proposte della Chiesa e delle ONG

Nel processo avviato dalla Dichiarazione di New York, le ONG chiedono che la società civile sia maggiormente ascoltata e formulando già, proposte che vanno principalmente nella direzione di salvare vite umane, di proteggere in maniera adeguata tutti i flussi indipendentemente dal loro status giuridico e di ampliare i meccanismi per la regolarizzazione dei migranti. Mettono l’accento anche sulla necessità di rivedere le politiche migratorie per dare maggiori garanzie ai migranti e rifugiati di accesso al lavoro, all’inclusione, alla giustizia, all’educazione e alla protezione nei paesi di origine, transito, accoglienza e nelle frontiere con un’attenzione particolare per donne, bambini e popolazioni più esposte a rischi. Allo stesso tempo fanno pressione perché gli stati si impegnino a garantire il diritto di ritorno oppure quello di non ritorno.

La Chiesa di papa Francesco dal canto suo, ha stabilito un documento con 20 punti di azione e 20 punti di azione pastorali per i Patti Globali, denso di umanità e consapevole delle ingiustizie che ci sono dietro ai movimenti migratori, come ha evidenziato il pontefice in numerose occasioni. In questo documento il papa attraverso il Dicastero propone delle azioni concrete articolate attorno ai quattro verbi presenti nel Messaggio del giorno del migrante e rifugiato:

da una parte, richiama i diversi attori sociali a considerare, analizzare, completare e approfondire le proprie proposte concrete nel dialogo già avviato dalla Dichiarazione di New York. Da un’altra parte, chiede alle diverse Conferenze episcopali di scegliere i punti più rilevanti per la loro situazione nazionale per poi esporli ai rappresentati dei governi dei loro Paesi, responsabili dei negoziati dei Patti globali nel 2018.

Come procedono i negoziati sui Patti Globali?

I due Global Compact sono una grande occasione perché gli stati collaborino e cooperino tra di loro. Purtroppo i movimenti di popolazioni, specialmente quelli massici, destano resistenze in molte società per le numerose informazioni strumentalizzate e per la manipolazione di alcuni settori politici che spesso li usano come capro espiatorio per nascondere la loro incapacità a trovare soluzioni ai diversi problemi sociali.  

Nell’arco del 2017 alcuni paesi, specialmente quelli del Sud del mondo, hanno partecipato a incontri a livello regionale producendo documenti e prese di posizioni da portare nei negoziati del 2018, dimostrando una volontà politica e di impegno verso una nuova proposta più equa e umana. Sfortunatamente non tutti gli stati hanno posizioni di apertura, infatti, non è un caso che il giorno prima dell’incontro preparatorio deciso dall’ONU a Puerto Vallarta in Messico il 6 dicembre, gli Stati Uniti d’America abbiano deciso di abbandonare il processo adducendo incongruenze con la loro politica migratoria. Anche se i Patti non avranno una natura coercitiva e obbligante per gli stati, è vero che essi manifestano l’opinione della maggioranza e sono l’inizio per la consolidazione del diritto internazionale e della cornice giuridica onnicomprensiva in materia migratoria. L’uscita dai Patti degli Stati Uniti – uno dei maggiori Paesi di immigrazione nel mondo – mette a rischio la garanzia dell’applicazione nel loro vasto territorio, degli impegni e obblighi sanciti dal diritto umanitario internazionale, dagli stessi diritti umani fondamentali, così come dai diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. Questo comportamento evidenzia una visione ottusa che non riconosce nelle migrazioni un fenomeno globale e che richiede pertanto, una risposta a carattere multilaterale e non nazionale.

I Patti Globali e l’Europa

I paesi europei dimostrano da parte loro, confusione nelle loro posizioni e una totale assenza di lungimiranza; dalla firma della Dichiarazione di New York non hanno modificato il loro atteggiamento e sembrano non aver adottato nemmeno in parte alcune delle sue raccomandazioni. Infatti, sono sempre più frequenti atti d’intolleranza, di discriminazione verso i migranti e la costruzione di muri e varchi per fermare i flussi. Dopo la grande crisi dei rifugiati del 2015, i paesi dell’Unione che non hanno una vera politica migratoria comune, hanno stabilito in grande fretta nell’Agenda europea per le migrazioni, una politica sempre più restrittiva basata sul controllo delle frontiere esterne e sulla disincentivazione della migrazione irregolare attraverso meccanismi di rimpatrio e respingimenti, realizzati frequentemente senza rispettare gli standard internazionali sul diritto di asilo.

Ad oggi in Europa, la gestione delle migrazioni si basa sulla securitizzazione, e anche se sono stati definiti alcuni criteri per accogliere e per la distribuzione tra i paesi dell’Unione di alcuni profughi in arrivo, hanno di fatto detenuto migliaia di persone costringendole a vivere in condizioni inumane. Inoltre, l’Unione ha focalizzato i propri sforzi principalmente nel fermare i flussi in arrivo dai paesi confinanti anche attraverso accordi di cooperazione internazionale come quello tanto contestato con la Turchia nel 2016 e quello con la Libia nel 2017. Accordi che delegano l’obbligo di ospitare i profughi nei paesi più poveri con un costo enorme per le persone ospitate in termini di dignità. In particolare l’accordo con la Libia ha suscitato indignazione a livello mondiale perché protagonista dei più atroci e inaccettabili abusi e violazioni dei diritti fondamentali e inalienabili dei migranti, profughi e richiedenti asilo. Anche se in parte ha rallentato i flussi, ovviamente non ha risolto il problema del traffico e della tratta, né tanto meno quello delle cause degli esodi. Ci sono evidenze chiare che le reti di trafficanti si stiano riorganizzando per allestire nuove rotte in quelle aree ancora poco controllate.

Perseverare nella speranza

I due Global Compacts sono un’opportunità notevole per adottare finalmente un approccio ispirato sui diritti, ma essendo un negoziato tra gli stati su un tema tanto politicizzato e controverso, si ipotizza che i suoi risultati non saranno pari alle aspettative di chi si batte da anni per politiche più giuste. Sappiamo comunque che questo è solo il primo gradino di una scala in salita; l’auspicio è che si raggiungano almeno alcuni dei punti essenziali come quello dell’apertura di canali umanitari per migrare in modo regolare e sicuro, l’accesso ai migranti e profughi a un lavoro decente e la garanzia dell’applicazione delle misure di protezione, specialmente per le categorie più vulnerabili.

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