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Moralia Dialoghi

Amare il forestiero come te stesso... perché anche voi foste forestieri

Una citazione biblica cliché e logorata?

Il Messaggio di Francesco per la Giornata del rifugiato 2018 introduce una citazione delle antiche Scritture ebraiche, Levitico 19,34, sulla quale è opportuno svolgere qualche riflessione per il rischio di ridurre tale riferimento a una sorta di “luogo” così “comune” da non destare più interesse, da non interrompere pensieri consolidati, senza un adeguato ritorno critico.[1]

Il libro del Levitico

Il libro del Levitico, parte integrante della Torah ebraica, tra altri temi, intende rendere consapevole il popolo di Israele della propria identità. Essa può essere custodita ritornando all’alleanza, che non solo comporta una particolare fedeltà a Dio, ma lo sforzo di ridefinire la qualità del legame sociale e del patto che lega la comunità anche agli stranieri dimoranti nella sua terra. La memoria della “differenza” di Israele rispetto alle altre nazioni percorre a livello profondo la minuta precettistica legale contenuta nel libro biblico. La santità del popolo di Dio, come realtà “messa a parte” rispetto alle altre genti, riproduce, all’interno della comunità, un ethos di fratellanza la cui formulazione sintetica è ben nota: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19, 18b).

Al centro dell’esigenza di santità si radica la memoria continua del “da dove veniamo”, di “ciò che eravamo” prima del dono di Dio: la “dura schiavitù” dell’Egitto, una condizione alienata in cui non poter apprezzare il bene condiviso dell’umanità. La pratica dell’ospitalità nei confronti dell’altro, lo straniero, diventa così occasione per non dimenticare la propria origine, esigenza di riconoscenza per quello che Israele è grazie all’agire divino. Per questo chi trova dimora in Israele è destinatario della stessa benevolenza riservata ai membri dell’alleanza: «il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19, 34).

Nell’accostamento a questa duplice espressione dell’amore risulta significativo come la prima formulazione (Lv 19,18b) si fondi a partire da se stessa. Sancisce la “naturalità” di un rapporto amicale, quello per cui “il simile ama il proprio simile”, tra i membri del popolo dell’alleanza. La seconda (Lv 19,34), invece, ha bisogno di una motivazione. Ma tale motivazione non è estrinseca, stabilita in forza di una legislazione positiva, bensì risulta iscritta doppiamente nella carne e nella storia di Israele: l’amore spontaneo per il proprio figlio («lo tratterete come colui che è nato tra voi») e la memoria degli inizi («anche voi foste forestieri nel paese di Egitto»).

Oltre l’equità umana

La prossimità nei confronti dello straniero non corrisponde a una semplice esigenza di equità umana. Secondo l’antico testo legislativo ebraico, contravvenirvi significa corrompere radicalmente il progetto di libertà che scaturisce dal dono di JHWH e la sua giustizia nel dispensare a ogni membro della comunità dell’alleanza la possibilità di vivere in una terra che non è frutto di conquista umana, ma è offerta da Dio. Il baricentro interpretativo è nella prima parola del Decalogo, che impone il riconoscimento dell’Unico Signore, JHWH. Esso si salda con le forme concrete del riconoscimento del “prossimo”, anche quando ha il volto dello straniero dimorante nella terra di Israele, con una potenziale apertura in chiave universalistica.

La pratica dell’ospitalità nei confronti dello straniero consente di mantenere viva la memoria di sé, della precarietà costitutiva di ciascuno. La vita di fede si apre a una storia di relazioni in cui la cura per la prossimità invera l’atto stesso del culto che riconosce l’Unico. Tuttavia l’ospitalità, lungi dall’essere una pura predisposizione caratteriale, risulta un percorso antropologico impegnativo in quanto non vi è in gioco solo il superamento della difficoltà che l’altro porta con sé, ma l’idea che la sua presenza venga a minacciare gli equilibri delle relazioni intersoggettive e i più complessivi assetti della società.

Oltre gli irenismi

Nella memoria dei credenti l’accoglienza dell’altro è già ripulita da quei facili e superficiali irenismi, che ne fanno la parodia, spesso giocata a fini ideologici e politici, per la manipolazione dell’opinione pubblica. Risulta essere azione tesa alla condivisione di un bene difficile a motivo della reale distanza tra me e l’altro, che domanda la pazienza, la tenacia e la mitezza di essere colmata per stemperare l’ostilità iniziale. Tuttavia tale ostilità non è perfettamente annullabile, non tanto a livello di azioni sociali, civili e politiche, ma per quel valore che continua ad avere in chiave antropologica. Ogni incontro tra soggetti umani si mantiene nella sua peculiare verità solo là dove si considera che l’altro non è realtà assimilabile e colonizzabile al mio progetto su di lui. L’altro nella sua soggettività uguale e differente resiste a ogni progetto assimilativo con la consistenza della propria libertà. Pertanto il volto dell’altro rappresenta sempre un monito con il suo opporsi a ogni dinamica predatoria e di assimilazione: quello di limitare le pretese di un io dispotico ed egemone.

L’ospitalità nei confronti del nuovo arrivante, sia esso il profugo politico o chi è costretto a lasciare la propria terra a motivo dell’impoverimento ambientale, introduce un principio che, senza cessare di essere un elemento che intacca equilibri interni alle relazioni intersoggettive, come quelle di più vasta portata sociale, ne può rappresentare anche un principio di rigenerazione. Lo “straniero” da accogliere e proteggere, da promuovere e integrare, prima ancora che un problema da risolvere, senza peraltro annullare l’importanza di tale questione, è l’occasione che si offre per un decisivo accesso ai parametri che definiscono l’umano comune.

L’altro che mi mette in discussione

L’altro è portatore di una domanda che non è solo richiesta di un tetto e di un cibo, da contabilizzare secondo pur legittime esigenze di sostenibilità economica. L’interrogativo più radicale nella pratica dell’accoglienza riporta a una permanente educazione al senso dell’umano. “Dare un luogo” all’altro straniero non comporta solo l’allestimento di strutture civili di accoglienza, ma accedere a una dimensione ancora ignota o dimenticata del senso del nostro essere. Una dimensione pericolosa, perché immediatamente destabilizzante secondo i calcoli dettati da una prudenza che può pretestuosamente prendere il volto ambiguo della diffidenza. Diffidenza non solo per l’insidia oggettiva recata dall’altro, ma perché più radicalmente intacca gli equilibri raggiunti, che spesso sono la maschera di un’indisponibilità di fondo a rinnovare in modo positivo le esistenze personali e le strutture sociali, compresa la comunità cristiana.

Condizione indispensabile è di “vedere lo straniero”, di farlo uscire dalla sua condizione di “invisibilità”, che poi è tale solo perché “non si vuole vedere”. La miopia sociale esprime un difetto di lungimiranza e porta a definire come urgenza improvvisa quello che è piuttosto frutto di opzioni e atteggiamenti politici pregressi. Il superamento dell’indifferenza non è senza fatica quando, come suggerito dal testo biblico, invita a mettersi nei panni e nelle condizioni esistenziali dello straniero.

Stranieri a noi stessi

Dentro ciascuno abita uno straniero, come ricorda la filosofa Julia Kristeva: «lo straniero ci abita: è la faccia oscura della nostra identità», così come al cuore della coscienza di Israele c’è la permanente erranza della condizione esodica. Così come dentro le nostre culture, arroccate sul baluardo della propria identità, abita già l’ospite inquietante, che non alimenta solo le paure, ma infrange le presunte certezze. Tale immedesimazione pone già le premesse per l’ulteriore domanda: quando uno straniero cessa di essere tale? Quando si lascia assimilare dentro la prospettiva omologante di una cultura superiore o vincente? Quando si definiscono per lui precisi criteri giuridici di inserimento? Quando l’acquisita cittadinanza pone termine al confronto tra un “noi” e un “loro”? L’uguaglianza resta un bene fragile, che si conferma o dissolve nella qualità delle relazioni effettive e quotidiane che diventano pratiche condivise. E che esigono la fatica del dialogo per comprendere il dono di ciascuno e, più radicalmente, il dono che è ciascuno.

 

 

[1] Oltre al testo del Levitico citato nel Discorso di papa Francesco, analoghe formule anche in Dt 10,18-19 (con la significativa espressione «[Dio] ama il forestiero»); 24,17-18; Es 22,20; 23,9 («anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto»).

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