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Moralia Dialoghi

La figura della legge naturale

Nell’Humanae vitae due espressioni racchiudono nel modo più chiaro la posizione di Paolo VI sul tema della legge naturale. Al n. 13 si afferma che la condanna morale della pillola aiuta i coniugi a «riconoscersi non arbitri delle sorgenti della vita umana, ma piuttosto ministri del disegno stabilito dal creatore» e più avanti, al n. 16, si specifica la differenza tra metodi naturali e pillola: «Nel primo caso i coniugi usufruiscono legittimamente di una disposizione naturale; nell’altro caso essi impediscono lo svolgimento dei processi naturali».

Un appello al naturale

Tali affermazioni, pur tra le molte obiezioni che sono state mosse e possono essere ancor oggi fatte valere, segnalano un’evidenza di senso comune: l’uomo non si dà lui stesso la vita, né questa origina da lui. Per tale ragione non gli è lecito servirsene come fosse cosa sua. Nel caso della vita nascente, ad esempio, non esiste ancora un soggetto capace di rivendicare dei diritti, e tuttavia ciò non legittima altri soggetti ad agire come se quella vita fosse cosa propria. Essa va trattata, invece, come se fosse già posseduta da qualcuno. 

L’embrione ottenuto grazie alla fecondazione assistita va anch’esso considerato come già posseduto da qualcuno, per il quale i modi di porlo in vita non saranno indifferenti. Anzi, l’artificio posto in essere da chi lo ha voluto risulterà il più radicale dei condizionamenti, e lo sarà per il semplice motivo che ai “processi naturali” si è sostituito il volere di altri soggetti.

L’appello al “naturale” ha dunque ancor oggi il senso di segnare il limite dell’agire umano, ma in modo più radicale del passato. Se nel caso della pillola il confine tra “naturale” e “artificiale” voleva difendere il legame tra atto sessuale e procreazione, oggi il confine riguarda il rapporto dell’uomo con la vita stessa, con il nascere e il morire.

Oltre a ciò, l’appello al “naturale” riguarda anche il sentimento di gratuità e gratitudine. Là dove la vita sia ritenuta un fatto casuale, manipolabile a piacimento, svanisce il senso del dono e del mistero. Si afferma un dispotismo strumentale verso la vita, che appartiene a una mentalità che guarda solo al presente ed è chiusa in se stessa, come afferma l’enciclica Laudato si’.

Una visione sacrale?

Tuttavia da più parti si ribaltano la tesi qui esposte, vedendo nell’appello al “naturale” il retaggio di una visione sacrale della natura che assoggetta la libertà umana al dato di fatto biologico, contraddicendo la vocazione umana all’umanizzazione del mondo naturale. Si sostiene sia disumano opporre l’istanza del rispetto della natura all’aspirazione alla genitorialità, in quanto si conferisce maggior valore ai fatti biologici che alle aspirazioni umane. Con Kant l’obiezione potrebbe essere formulata in questi termini: buona o cattiva può essere solo la volontà, non la natura.

Già fin d’ora, tuttavia, appare chiaro almeno un difetto di tale argomentazione: essa guarda alle aspirazioni dell’adulto presupponendo che possano risultare accettabili alla persona che verrà al mondo.

La riflessione teologica in merito a tali questioni ha dovuto riconoscere l’ingenuità di una tradizione che ha pensato l’atto creativo di Dio in senso materiale, facendo perciò dei fatti di natura una sorta di vincolo religioso e morale. Ha quindi dovuto ripensare l’impianto della dottrina cattolica in una prospettiva antropologica, a procedere dall’insuperabile mediazione soggettiva di ogni conoscenza umana. D’altro lato, però, si ricomincia oggi a considerare il fatto che l’ambiente naturale e le stesse condizioni biologiche dell’essere umano hanno valore morale in quanto esse stesse mediano il darsi del soggetto e della sua rete di relazioni. A seguito di ciò, il rapporto con il “dato naturale” non può essere solo di tipo strumentale, perché concorre a determinare il senso del vivere umano o del “passaggio su questa terra” di noi uomini, come dice l’enciclica già citata (Laudato si’, n. 160).

Dopo aver recuperato il nesso sostanziale tra natura e soggettività, certamente non estraneo alla sua tradizione, la teologia deve dunque oggi misurarsi con un’ipertrofia della soggettività umana, la quale è divenuta tanto dispotica verso il dato naturale, quanto “spiritualizzata”. Se ritengo, infatti, indifferente “fare” il figlio con il coniuge o con il seme di un altro uomo, con il mio utero o quello di un’altra donna, significa che il mio e altrui corpo lo ritengo solo uno strumento produttivo che non ha legami sostanziali con il senso della mia vita, delle mie scelte e delle mie relazioni. In forza di tale “spiritualizzazione” della persona, si pensa che l’amore genitoriale non possa essere in alcun modo intaccato dai modi con cui ho avuto il bambino e dai suoi legami con i genitori biologici.

Una soggettività autoreferenziale?

L’autoreferenzialità della soggettività può però pensare di inglobare l’appello all’amore, ma non può inglobare quella “datità” della vita che finisce per essere l’unico vero “altro da sé” che oggi resiste a un amore che s’impone a coloro che si vogliono amare. Datità significa “dono”, genitorialità, ma significa anche “dato”, condizione che nessuno ha volontariamente determinato, e in forza di tale fatto custodisce la prima e fondamentale parità tra gli esseri umani e il senso di gratuità del vivere. L’appellativo “madre terra” proposto dall’enciclica di papa Francesco richiama a tale legame tra la gratuità della vita e le condizioni naturali del suo nascere.  

Il diritto-dovere dell’amore non legittima dunque un atteggiamento arbitrariamente manipolatorio nei confronti del proprio e altrui corpo, specialmente là dove sono in gioco i processi riproduttivi.

L’argomentazione morale così posta in essere fa leva sulla corrispondenze tra la norma e le istanze morali insite nell’esperienza comune. Dette istanze possono in una certa misura essere osservate e descritte da un osservatore esterno, e insieme possono essere “narrate” dall’interessato, in quanto appartenenti al suo vissuto. La riflessione sulla comune esperienza fa vedere tale corrispondenza, a patto però che rimanga uno spazio alla riflessione e che non sia invece soffocata da pressioni ideologiche e da scelte legislative che astrattamente le ratificano, occupando il posto che spetta alla decisione politica.

L’elemento innovativo di tale modo di argomentare la norma morale sta nel concepire in senso pratico il soggetto stesso, superando un attivismo intellettualista, da un parte, e la passività emotivista dall’altra. Il soggetto non può presupporre se stesso – né ragione né affetti né alcun altra facoltà o qualità – all’atto mediante il quale egli risponde al senso che lo interpella e, rispondendovi, accede alla propria identità.

In tal senso, la soggettività umana altro non è che l’accadere di un atto e di un volere o di una decisione; è capacità di disporre di sé posta in essere grazie ad altro da sé e questa alterità è a sua volta una persona “in carne e ossa”.

Corporeità

Ogni agire dell’io in qualche misura anticipa dunque l’io stesso, in modo tale che non è errato parlare di una soggettività del corpo, con la quale si vuol affermare l’intima appartenenza dell’io al corpo e viceversa.

La qualificazione umana o soggettiva del corpo è stata plausibilmente fatta valere per differenza rispetto all’oggettivazione empirica sviluppata dalle scienze moderne. A seguito di tale operazione, il “corpo-proprio” del soggetto è però stato visto fondamentalmente come il corpo-sentimento, mentre il corpo dei medici o dei biologi è divenuto il corpo puramente funzionale, fatto di processi biologici e di organi, astratto dal vissuto soggettivo. In ciò è presente una riduzione della mediazione corporea dell’atto umano.

L’interpellazione che risveglia il soggetto a se stesso e alla propria esistenza è certo la parola detta da altri soggetti, ma anche le «tante parole» racchiuse nel fenomeno della vita, nella natura e nel proprio corpo: «Dai più ampi panorami alla più esili forme di vita, la natura è una continua sorgente di meraviglia e di reverenza. Essa è, inoltre, una rivelazione continua del divino» (Laudato si’, n. 85).

Al vissuto umano – al “corpo-proprio” – appartengono dunque anche i connotati prettamente somatici della persona e le funzioni esteriori, o biologiche, del suo corpo. Esse mediano il processo di identificazione del soggetto, le sue relazioni e le pratiche sociali. La differenza dei sessi, ad esempio, ha una rilevanza psicologica, sociale e morale che solo un’ostinata e pervasiva forzatura ideologica può oscurare, pretendendo di sostituire alla tradizionale educazione alla differenza, una pedagogia dell’indifferenza.

Il corpo appartiene dunque all’io anche nella sua funzionalità biologica, la quale non va subito e comunque ascritta a un’oggettivazione strumentale del corpo, ma concorre alla determinazione del senso dell’agire. La funzione sessuale occupa un posto di primissimo piano in tale mediazione del senso dell’agire.

In tal senso, il riferimento a ciò che ogni soggetto è “per natura” si ripropone oggi con forza sul piano della riflessione antropologica e insieme morale. 

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