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Moralia Dialoghi

Proteggere: dare asilo e non solo asilo

Proteggere… chi?

Come destinatari del messaggio del papa, tutti noi siamo chiamati a una responsabilità morale verso «i migranti, gli sfollati, i rifugiati e le vittime della tratta», in quanto «comunità che li accoglie».

Se guardiamo chi è arrivato nel nostro paese nel 2017, via mare o via terra, i volti sono in maggioranza di giovani uomini ma con un numero in crescita, negli ultimi anni, di donne e di minori soli, non accompagnati. Per entrare più nel dettaglio, secondo i dati del Ministero dell'Interno a inizio novembre 2017 risultano essere sbarcate poco più di 110.000 persone mentre le domande d'asilo risultano essere circa 115.000.

Più dell'80% di queste richieste sono di uomini tra i 15 e i 35 anni,[1] mentre circa il 15% sono di donne per la maggioranza tra i 18 e i 35 anni.[2]

Nello stesso periodo, i minori sbarcati da soli sono purtroppo già quasi 15.000, di cui circa 8.000 hanno fatto domanda d'asilo. Tra i minori non accompagnati la stragrande maggioranza sono ragazzi, più del 92%,[3] e circa il 7% è composto di ragazze.[4] La maggioranza di questi hanno tra i 14 e i 17 anni: minori soli e quindi vulnerabili che non devono però rimanere senza voce e senza diritti. Sono poche in proporzione le famiglie intere, in fuga da contesti difficili, che sbarcano in Italia.

Proteggere… come?

Proteggere, nel suo significato più nobile, vuol dire innanzi tutto riconoscere l’umanità di chi ci troviamo di fronte nel suo volto. Può essere una persona in difficoltà o che ha momentaneamente bisogno di aiuto, ma non perde per questo la sua dignità. Anzi, proprio la sua momentanea fragilità dovrebbe fare aumentare il rispetto e l'attenzione nei suoi confronti. Chiediamoci se questo sta avvenendo nel mondo, in Europa e nel nostro paese.

Se osserviamo il numero di conflitti nel mondo, gli interessi economici come la vendita delle armi e le politiche messe in atto, non sembra che la preoccupazione sia la tutela delle persone in difficoltà.

Anche se andiamo a vedere in dettaglio come vengono spesi i fondi per la cooperazione internazionale, che dovrebbe sostenere lo sviluppo dei paesi più poveri e in situazioni di crisi, abbiamo delle brutte sorprese. Troviamo ad esempio che la spesa sia italiana che europea per la cooperazione, negli ultimi anni, è stata più piegata a logiche securitarie che destinata a progetti di aiuto alle persone. Le risorse sono servite molto di più a rafforzare le frontiere e il monitoraggio di chi passa da un paese all'altro che per costruire pozzi, strade, ospedali…

Si dice "aiutiamoli a casa loro", ma i fatti contano più delle parole: la modesta quantità di fondi che destiniamo alla cooperazione e il loro impiego di altra natura dicono con evidenza che siamo molto più preoccupati di non fare arrivare da noi le persone in fuga che di aiutarle o proteggerle.

Si dice che si vuole contrastare lo sfruttamento di queste persone da parte dei trafficanti umani e che non si vuole che muoiano in mare. Ma quali alternative diamo alle persone che scappano da situazioni di conflitto, guerre e povertà per arrivare in maniera legale in Europa o nel nostro Paese? Molto poche o nessuna, visto che non è quasi possibile ottenere un visto per arrivare in sicurezza, che si cerchino protezione o migliori condizioni di vita.

Proteggerci… da loro?

In Europa, a partire da marzo 2016, sono entrate meno persone in cerca di protezione perché si è stabilito l'accordo con la Turchia, mentre in Italia a partire da agosto 2017 sono diminuite le persone che sbarcano perché si è siglato un memorandum con la Libia (nonostante la sua grave situazione di instabilità politica). Peraltro la maggioranza dell'opinione pubblica e dei governi europei, come quello italiano, sono stati contenti di questa diminuzione: come se questi numeri minori di entrate in Europa o di sbarchi in Italia significassero meno persone in difficoltà o che muoiono. In realtà le cose stanno esattamente all'opposto, ma di nuovo si svela che la nostra preoccupazione non è come stanno le persone. L’importante non è ascoltare da dove queste sono partite, cosa hanno vissuto durante i viaggi nelle mani dei trafficanti o nei paesi che hanno dovuto attraversare, cosa vivono adesso in Turchia o in Libia. La nostra preoccupazione e quindi i nostri sforzi e le risorse vanno invece nella direzione di rendere lungo, difficile e pericoloso il percorso per entrare nel nostro mondo.

Se poi guardiamo chi comunque riesce ad arrivare, secondo un recente rapporto di Oxfam, in Italia le persone partecipano a una sorta di “lotteria”. Si alternano infatti esperienze molto positive ad altre altamente negative, dal riconoscimento della protezione o di diritti più basilari fino alla qualità dell'accoglienza. Una tale varietà di risposte inducono a pensare che i diritti e l'accoglienza, più che un chiaro dispositivo di legge, nel nostro paese siano una mera possibilità che si potrà realizzare oppure no, in modo quasi casuale o arbitrario.

Infine, una volta che le persone vengono riconosciute dalle Commissioni territoriali come titolari di protezione internazionale o umanitaria (circa il 40% ce la fa) o non riconosciute (il restante 60%), si apre forse il capitolo più critico. Perché se la prima accoglienza più o meno efficiente è garantita quasi a tutti quelli che arrivano via terra o via mare, invece nella fase della domanda d'asilo le possibilità di essere accompagnati a un inserimento sociale e lavorativo si danno soltanto per pochissimi, e cosi per la maggioranza di chi è stato riconosciuto (oltre che per chi non lo è stato) si apre la via maestra della marginalità, che spesso porta alla precarietà abitativa e allo sfruttamento lavorativo.

Non proteggerci dal loro volto…

Allora, in tutto questo contesto, proteggere vuol dire innanzi tutto non voltare la testa, non girare lo sguardo da un’altra parte ma guardare negli occhi chi scappa, chi è in viaggio e chi arriva.

Sappiamo che oggi tocca a queste persone, anche a causa delle nostre politiche, ma domani potrebbe toccare a noi. Sappiamo che nell’incontro e nelle risposte che sapremo dare, anche in termini di azioni concrete e riconoscimento di diritti, non si gioca soltanto quello che possiamo fare per loro ma anche che tipo di persone siamo noi, in cosa crediamo e quali sono o non sono i nostri valori. Sappiamo che né il mondo, né l'Europa e neanche il nostro paese stanno bene e diventa urgente ed imperativo cominciare a fare meglio.

 

 

 

[1] Prime cinque nazionalità di questi uomini: Nigeria, Guinea e Costa d'Avorio, Bangladesh e Mali.

[2] Prime cinque nazionalità di queste donne: Nigeria, Costa d'Avorio ed Eritrea, Camerun e Somalia.

[3] Prime cinque nazionalità dei ragazzi minori non accompagnati, maschi: Gambia, Egitto e Guinea, Albania e Nigeria.

[4] Prime cinque nazionalità delle ragazze minori non accompagnate: Nigeria, Eritrea e Somalia, Costa d'Avorio e Albania.

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