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Moralia Dialoghi

«I vostri giovani avranno visioni». Sinodo sui giovani, la fede di domani

Un quadro di riferimento...

Siamo ormai alla vigilia del Sinodo dei vescovi sui giovani, che si svolgerà a Roma dal 3 al 28 ottobre 2018 su «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale».

Nell’Instrumentum laboris così si legge: «Prendersi cura dei giovani non è un compito facoltativo per la Chiesa, ma parte sostanziale della sua vocazione e della sua missione nella storia».

Il presente «Dialoghi» vuole offrire qualche iniziale spunto di riflessione su alcuni temi che saranno messi a fuoco durante i prossimi lavori, perché – come ricordava il card. Lorenzo Baldisseri durante la conferenza stampa di presentazione dell’Instrumentum laboris il 19 giugno 2018 – «ci vuole un quadro di riferimento per interpretare la realtà, altrimenti si resta preda della superficialità».

I contributi sono così articolati:

  1. Il primo contributo  è di Franco Garelli, autore di Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino, 2016), in cui ci viene offerta una rapida panoramica dello status quo della «credenza giovanile» in Italia.
  2. Il secondo contributo è un’intervista a Giacomo Costa, segretario speciale del prossimo Sinodo. che ci racconta il backstage del Sinodo, ovvero il lavoro preparatorio, e mette l’accento sul termine «discernimento».
  3. A Paola Lazzarini abbiamo chiesto di esplicitare il termine «vocazione» nel contesto attuale.
  4. Segue un’intervista a mons. Claudio Giuliodori, assistente ecclesiastico dell’Università cattolica, sull’importanza della riflessione teologica e della cultura per una rinnovata azione pastorale ed ecclesiale sui giovani.
  5. Rita Bichi – co-curatrice con Paola Bignardi di Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia e di Il futuro della fede nell’educazione dei giovani. La Chiesa di domani – ci mostra l’altra faccia della medaglia del mondo giovanile, ovvero il vissuto degli adulti impegnati in ruoli esplicitamente educativi.
  6. Infine Gaia De Vecchi propone qualche conclusione per rilanciare la riflessione sul piano etico-teologico.

Piccoli atei crescono? I millennials e la fede

Quanto la fede religiosa (nelle varie forme in cui può esprimersi) ha ancora «cittadinanza» nelle nuove generazioni? Domande come questa sono al centro del prossimo Sinodo sui giovani e anche oggetto di alcune indagini recenti, tra cui quella dedicata alla situazione italiana, illustrata nel volume Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino 2016), da cui si possono trarre le seguenti tendenze.

Quanto la fede religiosa (nelle varie forme in cui può esprimersi) ha ancora «cittadinanza» nelle nuove generazioni, rappresenta una risorsa di rilievo per la vita, oppure è ormai ai margini dei loro sentimenti e attese?

L’eventuale domanda di senso è aperta ai messaggi offerti dalle religioni istituite, oppure il «fai da te» religioso è la cifra oggi più diffusa del rapporto dei giovani col sacro? In particolare, il sentire attuale dei giovani è in sintonia o meno col messaggio cristiano, e come reagisce al modo in cui esso vien proposto dalle Chiese e dalle comunità religiose locali? Inoltre, che ne è della trasmissione della fede? Rientra ancora nel passaggio del testimone tra genitori e figli, tra adulti e giovani, oppure si registra a questo livello una discontinuità generazionale che non ha precedenti nel passato?

Domande come queste sono al centro del prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani e anche oggetto di alcune indagini recenti, tra cui quella dedicata alla situazione italiana, illustrata nel volume Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio? (Il Mulino 2016), da cui si possono trarre le seguenti tendenze.

Senza Dio, ma non senza spiritualità

1. Anzitutto la sensibile crescita negli ultimi decenni della quota di giovani che si definisce in posizione atea o agnostica o palesa indifferenza circa la questione dell’esistenza di Dio, ritenendo di non aver bisogno di una «sacra volta» per dare un senso compiuto alla propria esistenza.

In Italia sono ormai oltre il 30%, mentre 15-20 anni fa erano meno della metà. Non siamo ancora ai livelli di altre nazioni europee (tipo Francia, Svezia, Germania, dove i giovani non credenti raggiungono il 50-60%), ma è indubbio che anche da noi lo scenario sta rapidamente cambiando.

Dentro quest’area vi sono posizioni assai diverse. A fianco degli «atei forti», la cui posizione è sorretta da specifiche motivazioni teorico-ideali o da ragioni «ideologiche» (tra cui il dissidio fede-ragione, fede-scienza, religione e progresso), vi sono i giovani che esprimono un «ateismo debole» o «pratico», caratterizzato da una scarsa riflessività su questi temi o dalla tendenza a uniformarsi alla cultura prevalente nel proprio ambiente di vita.

Non manca inoltre l’ateismo di matrice anti-religiosa o anti-clericale, tipico di quei giovani che negano Dio più per liberarsi di una religione ritenuta oppressiva e antimoderna che per una precisa presa di posizione sulle questioni di fede.

Occorre notare tuttavia che una parte dei giovani «senza Dio» o «senza religione» attribuisce un certo credito (perlomeno a livello ideale) all’istanza della spiritualità, interpretando però i valori dello spirito secondo un orizzonte immanente, capace di offrire armonia alla vita, di stare bene con gli altri, di riconciliarsi con la natura, esprimendo alcune forme di «sacralità» della vita stessa.

In altri termini, non tutto l’ateismo giovanile (sia esso convinto o pratico) esclude una domanda di spiritualità.

Il «credere relativo»

2. La condizione «credente» è ancora diffusa, ma anch’essa assai differenziata al suo interno. I giovani credenti «convinti e attivi» sono ormai ovunque una piccola e qualificata minoranza, che esprime una fede vitale e impegnata nelle comunità locali, a seguito di esperienze positive vissute in famiglia e negli ambienti ecclesiali.

Ma nell’insieme dei giovani «credenti» prevalgono – come già succede per la popolazione adulta – quanti esprimono una fede in Dio più tenue o incerta, com’è tipico di coloro che mantengono un’identità cristiana più per motivi culturali o etnici che spirituali, ritrovando a questo livello un riferimento che offre sicurezza in una società sempre più precaria.

Si delinea in tal modo una religiosità più delle intenzioni che del vissuto, che rappresenta più una «memoria remota» che un criterio attivo di vita. Sembra questo il profilo di chi è «religiosamente connesso senza essere religiosamente attivo»; che tuttavia pare ancora ammettere l’esistenza di una «sacra volta» sopra di sé, cui potersi ancorare in particolari circostanze, quando si è interpellati dalle questioni decisive della vita.

L’incertezza del credere è comunque un tratto religioso oggi assai diffuso, che sta contagiando gli aderenti di tutte le fedi religiose, forse con l’unica parziale eccezione dei seguaci dell’islam.

La fede dei giovani credenti è più incerta e dubbiosa di quella espressa dalle generazioni del passato, riflette maggiormente le vicende altalenanti della vita, gli stati d’animo del momento. Insomma, si tratta di una fede non data per scontata, esposta a continue domande e ripensamenti, non esente da sintomi di scetticismo.

Questo «credere relativo» sembra un prodotto dello spirito del tempo, un segno che anche a livello religioso si registra quella precarietà del vivere che è un tratto tipico dell’epoca attuale.

«Non la penso come te, ma ti capisco»

3. Questa diffusa compresenza (nella società e nei gruppi amicali, ma anche sovente nei rapporti di coppia) di credenti, non credenti e «diversamente credenti», più che generare tensioni e conflitti sembra favorire – a certe condizioni – situazioni di reciproco riconoscimento. Ciò vale in particolare quando si è di fronte da un lato a un ateismo o a un agnosticismo dal volto più umano, non arrogante, né presuntuoso; e dall’altro a una credenza religiosa più dialogante che fanatica.

Vi sono certamente dei giovani atei dalle convinzioni granitiche, assai ostili e tranchant nei confronti delle Chiese o della religiosità tradizionale, che perlopiù non comprendono e anche denigrano la fede religiosa di quanti la professano.

Ma a fianco di essi si contano non pochi giovani che pur definendosi «senza Dio» e «senza religione» ritengono sia plausibile credere e avere una fede religiosa anche nella società contemporanea, pur se la cosa non li riguarda. Negano quindi l’assunto che sia anacronistico credere in Dio nell’epoca attuale.

Si tratta di una posizione curiosa. Pur sufficientemente convinti delle proprie scelte, sono consapevoli che altri possono operare delle opzioni diverse sulle questioni fondamentali della vita. Per contro, tra i giovani credenti (anche convinti e attivi) non mancano quelli che riconoscono quanto sia difficile professare una fede religiosa nella società plurale. Insomma, gli steccati tra il credere e il non credere sembrano incrinarsi in una generazione abituata a soppesare i pro e i contro di ogni opzione e a ritenere legittime le scelte che ogni individuo compie in modo consapevole, anche se diverse dalle proprie.

La fede ritenuta plausibile (anche da vari non credenti) è dunque quella più frutto di scelta che di destino, capace di fornire risposte vitali all’esistenza. Quindi non una fede imposta dalla famiglia o da ambienti religiosi asettici, che l’individuo si ritrova come bagaglio della vita senza averne maturato adeguata consapevolezza.

Molti giovani ammettono che anche nelle società più dinamiche può essere ragionevole credere in Dio e avere una fede religiosa, ma… «a precise condizioni» (di libera scelta, di coerenza, di coscienza). Va da sé che questo credito alla fede religiosa può essere più ideale che fattuale, più frutto di un ragionamento astratto che di un effettivo impegno di vita.

Un’autocritica per le Chiese?

4. Circa il passaggio o meno del testimone della fede, emerge che è più facile trasmettere da una generazione all’altra la «non credenza» o una «credenza debole» che un orientamento religioso più impegnato. Ciò in quanto nelle famiglie in cui i genitori sono atei o agnostici i figli tendono perlopiù ad allinearsi a queste posizioni; mentre nei nuclei in cui i genitori sono più coinvolti in una fede religiosa la maggior parte dei figli tende a distanziarsi da questo orientamento.

Ciò non toglie, tuttavia, che i giovani più attivi e convinti dal punto di vista religioso siano quelli che hanno alle spalle famiglie credenti impegnate ed esperienze religiose significative.

Nella maggior parte delle nazioni più sviluppate è in sensibile aumento la quota di giovani cresciuti senza aver ricevuto una formazione religiosa, come figli di famiglie non credenti; per cui la loro distanza da Dio e dalla religione sembra perlopiù dovuta a «ragioni di nascita».

In altre nazioni, invece, come in Italia, i giovani oggi «senza Dio» o «senza religione» hanno perlopiù avuto una socializzazione religiosa negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, fatta di presenze al catechismo, di frequenza della parrocchia o delle comunità religiose locali, di momenti di divertimento e di riflessione umana e spirituale.

In questi casi, dunque, si tratta di atei o agnostici o di indifferenti alla religione non «per nascita», ma perché a un certo punto della loro biografia si sono distaccati da questi ambienti e proposte per vari fattori: perché tali esperienze non hanno lasciato una particolare traccia nella loro vita, o perché continuando gli studi hanno scoperto altre visioni della realtà e maturato diversi orientamenti, o a seguito dello sconcerto di fronte ad alcune Chiese ritenute rigide nel campo della morale e nello stesso tempo attraversate al proprio interno da gravi scandali; fors’anche per l’incapacità delle Chiese stesse di proporre un discorso sull’uomo, sulla natura, sulla vita sociale, che sia significativo per la coscienza moderna.

Il backstage del Sinodo. Intervista a p. Giacomo Costa sj

A colloquio con padre Giacomo Costa sj che, assieme a don Rossano Sala, è stato nominato segretario speciale dell’imminente Sinodo dei vescovi. Gli abbiamo chiesto quale sarà secondo lui la posta in gioco di questo appuntamento ecclesiale.

– Padre Costa, assieme a don Rossano Sala lei è stato nominato segretario speciale dell’imminente Sinodo dei vescovi, sul tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», che inizia il prossimo mercoledì 3 ottobre in Vaticano. Qual è secondo lei la posta in gioco di questo appuntamento ecclesiale (ma non solo)?

«L’attenzione dei media e le risonanze nell’opinione pubblica, sia intra che extra ecclesiali, paiono inferiori a quelle stimolate dal precedente Sinodo sulla famiglia. Tuttavia la posta in gioco del prossimo Sinodo non è affatto secondaria, specialmente in ottica di lungo periodo.

Questo Sinodo infatti stimola ad affrontare, nei contesti attuali, la questione dei rapporti tra le generazioni, ripensando il presente in modo che lasci spazio al futuro. Qualsiasi organizzazione che non riesca a farlo è condannata a perdere progressivamente di significato, riducendo via via la propria capacità d’incidere sulla realtà.

La Chiesa non può permetterselo, non solo e non tanto per garantirsi un futuro come istituzione, ma perché ne va della trasmissione del messaggio evangelico che rappresenta la sua ragion d’essere, o, in altri termini, la sua vocazione profonda».

Il coinvolgimento dei giovani

– Non si giunge a un appuntamento così importante senza un lungo e articolato percorso preparatorio. C’è un aspetto che vorrebbe mettere in luce, a livello sia di metodo sia di attenzioni, aspetti, stile?

«Va sottolineata l’articolazione del percorso di preparazione del Sinodo, ispirata a criteri di inclusione e partecipazione senza precedenti.

Il consueto Documento preparatorio, pubblicato a gennaio 2017, era infatti accompagnato da un questionario, cui tutte le conferenze episcopali del mondo erano invitate a rispondere. Un Seminario internazionale a settembre 2017 ha permesso di raccogliere l’opinione di esperti di varie discipline teologiche e sociologiche.

Intanto una consultazione on-line offriva ai giovani di tutto il mondo la possibilità di prendere la parola in prima persona: oltre 100.000 lo hanno completato. Infine – e questa è una novità assoluta – dal 19 al 24 marzo scorso 300 giovani di tutto il mondo (non tutti cattolici e non tutti credenti) sono stati invitati a Roma per prendere parte alla Riunione pre-sinodale.

Il Documento finale da loro prodotto, integrando anche gli interventi degli oltre 15.000 giovani che hanno partecipato ai lavori attraverso i social network, è stato consegnato al papa e rappresenta una delle fonti principali dell’Instrumentum laboris.

Questa dinamica ha reso la preparazione al Sinodo un processo di reale incontro e ascolto tra generazioni. Come aveva espressamente chiesto papa Francesco, sono state sperimentate nuove modalità perché i giovani potessero far sentire la propria voce “senza filtri” ed essere presi sul serio.

Se il Sinodo rimane ufficialmente “dei vescovi”, proprio per il loro ruolo di pastori, non può però non diventare un evento che coinvolge tutta la Chiesa. L’evoluzione non è ancora terminata, il format dell’Assemblea di ottobre resta in larga parte quello tradizionale, ma la direzione imboccata è molto chiara, ed è riassumibile con l’espressione dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco: “avviare processi possibili” più che “occupare spazi” e cercare di “ottenere risultati immediati” (n. 224s).

Resta comunque molto da imparare su come far partecipare i fedeli, come coinvolgere gli esperti, come valorizzare adeguatamente le diverse prospettive sociali e culturali in tutte le fasi del cammino. Si tratta per la Chiesa di imparare ad ascoltare: soprattutto quando ci si muove a livello globale, trovare modalità concrete, adeguate, sostenibili è tutt’altro che scontato e c’è ancora molta strada da fare, ma essere già riusciti a fare qualche passo è stato ed è comunque appassionante!».

Che cosa vuol dire discernimento

– Tutto questo lavoro preparatorio ha consentito di mettere maggiormente a fuoco gli obiettivi?

«Indubbiamente! Provo qui a formularne tre, che evidentemente si articolano tra di loro.

Il primo assume il bisogno dei giovani, da loro espresso con grande forza, di trovare figure capaci di accompagnarli nell’identificazione della strada originale di ciascuno verso la pienezza della vita. Compito del Sinodo capire in che modo e con quali mezzi la Chiesa può attivarsi per darvi una risposta. Questo richiederà inevitabilmente alle comunità ecclesiali di mettersi in discussione, di intraprendere un “cammino di conversione” (cf. Instrumentum laboris, terza parte).

Ecco quindi il secondo obiettivo del Sinodo, che riguarda il rinnovamento della Chiesa perché la sua identità profonda risulti decodificabile anche dal mondo giovanile, con linguaggi che essi comprendano. Raggiungere questi due obiettivi richiederà poi alla Chiesa universale e poi a quelle locali di prendere decisioni, di individuare mezzi e strumenti e una direzione di marcia.

Il terzo obiettivo del Sinodo e del processo che l’Assemblea di ottobre metterà in moto non può che essere dunque una crescita nella capacità di “discernimento” da parte delle comunità ecclesiali».

– Ha pronunciato la parola «discernimento», che impregna tutto il magistero di Francesco e prima ancora la spiritualità ignaziana. Lei stesso, p. Costa, è gesuita. Ma «discernimento» è termine (processo, paradigma, concetto…) che coinvolge anche la riflessione teologica-morale e quindi noi tutti scrittori e lettori di Moralia. Ci potrebbe, per cortesia, dire una parola in tal senso, anche in relazione al lavoro fin qui compiuto?

«L’ambito in cui si colloca il discernimento è quello dell’opzione tra le alternative a cui la vita pone dinnanzi, in condizioni d’incertezza e in presenza di spinte interiori contrastanti.

Attiene innanzitutto alle scelte fondamentali sullo stato di vita (matrimonio, sacerdozio e vita religiosa), sul corso di studi o sulla professione o su un impegno di servizio, ad esempio in politica. Ma può riguardare anche decisioni più ordinarie (gestione del tempo, scelte di consumo e di investimento, opzioni elettorali ecc.), che determinano quello che oggi è chiamato “stile di vita”.

Nel discernimento siamo di fatto chiamati a riconoscere la voce dello Spirito, tra le tante che nel mondo si fanno udire, e a decidere di seguirla; quindi è sia un atto puntuale, che si compie con riferimento a una scelta concreta, sia anche un atteggiamento di attenzione che si snoda nel tempo e accompagna l’intera esistenza.

Non è quindi una tecnica per prendere decisioni ma un esercizio della coscienza, fondato sulla convinzione di fede che la vita in pienezza è un dono offerto a ogni uomo e ogni donna. Questa dinamica riguarda ciascuna persona, ma interpella anche i gruppi, le organizzazioni e le istituzioni, a partire da quelle ecclesiali: anche a loro lo Spirito affida una missione, la cui realizzazione richiede un continuo discernimento.

L’Instrumentum laboris è strutturato in tre parti, seguendo i passi tipici di un processo di discernimento (riconoscere, interpretare, scegliere) e offrendo una base all’articolazione dei lavori dell’Assemblea: ogni settimana di lavoro sarà focalizzata su una delle tre parti. Questo è lo stile sinodale che interpella direttamente anche la riflessione teologico-morale.

La prima parte (Riconoscere) chiede di mettersi di fronte alla realtà non per un’analisi sociologica, ma con lo sguardo del discepolo, scrutando le orme e le tracce del passaggio del Signore con un atteggiamento di apertura e misericordia, evitando pregiudizi e demonizzazioni.

Per chi ha a cuore i giovani e desidera accompagnarli verso la vita in pienezza, è imprescindibile conoscere le realtà che essi vivono, a partire da quelle più dolorose come la guerra, il carcere o l’emarginazione. Ugualmente è necessario lasciarsi interpellare dalle loro inquietudini, anche quando mettono in questione le prassi della Chiesa (per esempio la vivacità della liturgia o il ruolo della donna) o riguardano questioni complesse come la sessualità.

Altrettanto importante è prendere consapevolezza dei punti di forza della presenza della Chiesa nel mondo giovanile, e delle sue debolezze, a partire dalla scarsa familiarità con la cultura digitale.

La seconda parte dell’Instrumentum laboris (Interpretare) non fornisce un’interpretazione già pronta della realtà, ma offre alcuni strumenti per una lettura più approfondita. Metto in evidenza in particolare uno dei quattro termini o chiavi di lettura, strettamente collegato al discernimento: l’accompagnamento.

È un servizio che i giovani chiedono con forza, segnalando di sentirsi soli di fronte a un mondo complicato. Il servizio dell’accompagnamento chiama in causa chi si trova a svolgere il compito di guida spirituale e ha quindi bisogno di una formazione adeguata, ma non solo. Riguarda molte altre figure che incontrano i giovani nei diversi ambiti in cui si svolge la loro vita (genitori, psicologi, insegnanti, formatori, educatori, allenatori e in fondo la comunità cristiana nel suo insieme…).

I giovani stessi segnalano le qualità che deve possedere un buon accompagnatore: deve aver fatto i conti con le proprie fragilità ed essere testimone di fiducia e speranza, e non un giudice severo o qualcuno che cerca di imporre modelli precostituiti. Accompagnare richiede allora di assumere un rischio, di uscire dalla propria posizione, permettendo a chi è accompagnato di accedere a quella originalità che il Creatore gli ha donato, e non di replicare passivamente un modello.

La terza parte dell’Instrumentum laboris (Scegliere) invita la Chiesa intera a compiere delle scelte di cambiamento all’interno di un orizzonte di vitalità spirituale. La prospettiva è quella integrale tracciata dal magistero di papa Francesco, capace di articolare le diverse dimensioni dell’essere umano, la cura della casa comune, la sollecitudine contro ogni emarginazione, la collaborazione e il dialogo come metodo per la costruzione del popolo di Dio e la promozione del bene comune. Questa prospettiva si salda con la suggestione dell’essere Chiesa in uscita, senza arroccamenti e preoccupazioni di occupare il centro.

Un lavoro che la Chiesa fa per sé e per tutti

– Quali sono, secondo lei e allo stato attuale dei lavori, le urgenze e le attenzioni che la riflessione teologico-morale dovrebbe tenere particolarmente presenti?

«Prendere sul serio i giovani, la loro cultura, le loro esigenze, le loro risorse e le loro fragilità mette di fronte alla necessità del cambiamento, così da aprirsi alla novità di cui queste generazioni sono portatrici.

In essa – la Chiesa ne è consapevole per fede – è all’opera lo Spirito che fa in questo modo sentire il proprio appello. Non è peraltro solo la Chiesa a doversi misurare con le difficoltà della comunicazione tra generazioni, che la rapidità dei processi di cambiamento socio-culturale rende estranee nel giro di pochi anni.

Il processo sinodale in corso ci dice però che la Chiesa ha quanto meno la consapevolezza del problema e il desiderio di trattarlo seriamente. Provare ad affrontare la questione non solo in chiave diagnostica, ma lasciando emergere, attraverso un serio lavoro di ascolto e d’interpretazione condiviso, concreti itinerari di cambiamento per costruire una rinnovata solidarietà tra le generazioni, è la posta in gioco del prossimo Sinodo. Lo è anche per la riflessione teologico-morale, attraverso cui la Chiesa svolge nei confronti dell’insieme della società il servizio di indicare una priorità che non può essere disattesa.

Questo per quanto riguarda lo stile. Se invece la domanda è sugli ambiti più urgenti, direi che tutti sono ugualmente urgenti.

Per citarne solo due: il primo ambito si radica nell’attenzione all’inclusione delle differenze e riguarda soprattutto le tematiche del genere, della sessualità e dell’affettività: molte posizioni sono percepite come astratte, slegate dell’esperienza concreta, aprioristiche o autoritarie, e non sufficientemente attente alla tutela delle differenze.

Con un’intensità ben maggiore, lo stesso discorso vale per le questioni legate alla disuguaglianza e all’ingiustizia sociale, a partire dal ruolo della donna nella società e nella Chiesa, e per quelle ambientali (che includono il tema della giustizia tra le generazioni): i giovani hanno il loro modo di affrontarle, il loro lessico e le loro categorie per riflettere e le loro modalità per impegnarsi, spesso assai lontani da quelli delle generazioni precedenti.

La sfida del Sinodo – e che in qualche modo rilancio anche agli scrittori e ai lettori di Moralia – è proprio quella di scoprire all’interno della tradizione spirituale e teologica della Chiesa quelle ricchezze che possano consentirle di sintonizzarsi anche con la mentalità di questa epoca, così da poter continuare a mostrare la rilevanza e la vitalità del messaggio evangelico per ogni generazione e l’impegno etico personale e comunitario».

Con il senso della realtà. Uno sguardo (dal basso) alla vocazione delle donne

Partendo dallo stimolo a demitizzare la vocazione e a renderla «cosa» di uomini e donne, vorrei provare ad affrontare il nodo del discernimento vocazionale dei giovani, e in particolare delle giovani donne.

In un famosissimo saggio del 1919 Max Weber, padre della sociologia moderna, parla di «Politik als Beruf» e descrive qualità e criteri del vero uomo politico: il titolo del saggio viene tradotto abitualmente La politica come professione, ma potrebbe essere reso altrettanto correttamente con «La politica come vocazione», dato il doppio significato della parola tedesca Beruf.

È interessante questa sovrapposizione di significati, per due ragioni fondamentali: da un lato aiuta a demitizzare la vocazione e a renderla «cosa» di uomini e donne, dall’altro restituisce alla professione la propria statura di «chiamata» ad agire nel mondo. Con questo stimolo a premessa, vorrei provare ad affrontare il nodo del discernimento vocazionale dei giovani, e in particolare delle giovani donne.

Nel Documento preparatorio al Sinodo sui giovani, la vocazione viene definita «la forma concreta di quella gioia a cui Dio lo chiama e a cui il suo desiderio tende»: racconta dunque una dinamica relazionale nella quale la volontà di Dio e il desiderio del singolo si ricercano, s’incontrano, s’uniscono per giungere alla realizzazione di una vita piena, donata e gioiosa.

Il protagonista nascosto: la realtà

C’è però – in questa definizione – un terzo protagonista accanto a Dio e alla persona in discernimento, un protagonista ingombrante, ma che in molti casi resta nascosto per la prima parte del percorso.

Questo protagonista è la realtà, la «forma concreta», ovvero le possibilità che la persona esercita perché vive in un certo luogo, un certo tempo, a condizioni date.

Il discernimento è proprio questo ballo a tre e, in questo senso, è molto simile a quello che nell’ambito formativo si chiama orientamento (e qui ritorna la vicinanza di professione e vocazione), nel quale oltre a passioni e talenti vanno tenute presenti le «condizioni del mercato del lavoro» in un dato luogo e tempo.

Le giovani donne e i giovani uomini che raggiungono l’età delle scelte si trovano quindi a doversi confrontare non solo con le proprie aspirazioni, ma anche con le concrete opportunità che hanno, fermo restando che «la gioia a cui Dio chiama» è gioia piena per tutti i suoi figli, una gioia senza gerarchie e senza livelli di eccellenza diversi.

La vocazione delle donne: un percorso a ostacoli

Provando allora a guardare al discernimento vocazionale come a un orientamento condotto sul livello degli stati di vita anziché su quello professionale, sottraendolo quindi momentaneamente al dato spirituale che pure ne è il fondamento (ma che altri sapranno meglio affrontare), immaginiamo un giovane uomo e una giovane donna che s’interrogano sul proprio futuro.

Quali differenze? La prima è facilmente identificabile: la figura che accompagna il discernimento è ancora per entrambi, nella stragrande maggioranza dei casi, un uomo e questo ha ricadute diverse se il giovane è un maschio o una femmina.

La seconda differenza è che le strade disponibili sono diverse, e non soltanto perché le donne non possono accedere al ministero ordinato, ma anche per la diversa organizzazione e disciplina interna – ad esempio – delle congregazioni religiose femminili e maschili, per il diverso ruolo all’interno della famiglia, in particolare per come questa continua a essere presentata nei nostri contesti cattolici.

Riguardo al primo punto riprendo uno stimolo portato da Rita Torti su Presbyteri n. 9 del 2015, quando dice:

«Il rapporto con il parroco, con l’assistente dell’associazione, con il prete-educatore, con la guida spirituale nasce felice... Nel prete si trovava un interlocutore significativo con cui parlare, confidarsi, da cui farsi accompagnare, a cui chiedere consiglio e che apprezzava e incoraggiava il tuo impegno nella comunità… Ma se per i ragazzi il passare del tempo ha significato un’evoluzione del rapporto nella continuità, per noi è stato piuttosto un graduale distacco, non voluto e doloroso, a cui si è cercato di porre rimedio, ma raramente con risultati apprezzabili. Non viene meno l’affetto, ma si sente che a un certo punto la maschilità del prete diventa un ostacolo; non perché lo sia in sé, ma perché tende a porsi come legge e criterio interpretativo anche rispetto a ciò che non può sperimentare, cioè l’essere donna».

Non so se questa sia ancora l’esperienza delle più giovani, ma ho timore che per le (ormai poche) ragazze credenti e attive nelle comunità le cose non siano molto cambiate.

Finché si è molto giovani difficilmente la questione femminile emerge, i cammini sono comuni, il rapporto di accompagnamento col sacerdote è lo stesso, ma crescendo si scopre il diverso trattamento che – nel periodo delle grandi scelte – si vive tra maschi e femmine.

In qualche modo si sperimenta una lettura maschile sul modo in cui si dovrebbe essere come donne, proprio quando questa identità si sta formando, e davanti a questa parola maschile sul nostro femminile o ci si sottomette, rinunciando alla propria assertività, oppure la si rifiuta correndo il rischio dell’allontanamento.

C’è poi il diverso valore attribuito alle vocazioni, ad esempio religiose, maschili e femminili nei contesti misti, come le parrocchie e i movimenti (diversi sono i gruppi esclusivamente femminili spesso seguiti da suore). Non si tratta qui ovviamente di rivendicare, ma di guardare alla realtà: il valore attribuito alla presenza di un «potenziale sacerdote» tra i ragazzi di un qualsivoglia gruppo giovanile è sufficiente a mettere in ombra qualsiasi altra vocazione. In questo senso è evidente che si tratti di un problema che tocca un po’ tutto il laicato, eppure – in quanto donne – la struttura clericale ci allontana due volte: come laiche e come donne.

Diseguaglianza delle opportunità

Secondo punto: le opportunità vocazionali concrete date a donne e uomini sono diverse e non possono tutte essere ricondotte alle differenze naturali.

Pensiamo solo alla vita religiosa maschile e a quella femminile. Laddove le donne hanno provato a costruire comunità più autonome, superando lo schema della religiosa che serve senza essere vista (ricordiamo qui l’importante reportage sul lavoro gratuito delle suore apparso sul numero di marzo 2018 di «Donne, Chiesa, Mondo» de L’Osservatore romano), le religiose sono state messe sotto tutela.

E non mi riferisco solo ai casi estremi come il commissariamento della Leadership Conference of Women Religious negli Stati Uniti, ma anche ai tanti, troppi documenti vaticani che si sono premurati di entrare nel merito della vita delle suore in un modo mai visto per i religiosi maschi (da ultimo il documento Cor orans). Contemporaneamente non si può tacere una certa impostazione tradizionalistica dei ruoli maschili e femminili, nel modo in cui viene presentato il matrimonio cristiano e in cui si preparano i giovani in discernimento vocazionale, orientati a questo stato di vita.

Quando si parla di vocazione delle donne occorre quindi tenere presente anche questo aspetto di diseguaglianza delle opportunità, che se al di fuori della Chiesa è stato almeno in parte superato, all’interno ancora persiste. Un percorso di accompagnamento vocazionale dovrebbe svelare queste incongruenze profonde e contrarie al Vangelo di Gesù e incoraggiare la presa di coscienza e l’assertività delle donne che – uniche – possono riformare la vita religiosa femminile e insieme agli uomini, alla pari, le dinamiche familiari.

Parlare di vocazione ai giovani di oggi, ritengo, richiede una radicale aderenza alla realtà, così come una profonda fiducia nella capacità dei giovani di trasformarla questa realtà. Come Gesù chiamava a cose concrete, lasciare le reti, vendere ciò che si ha e tutto per stare con lui, così oggi chiama nella concretezza della vita e in questa affida alla donna e all’uomo l’opportunità di farsi coautori del Regno.

È il «per sempre» a dare valore a una scelta?

Un ultimo appunto riguarda il tema della definitività delle scelte. C’è sempre, quando si parla di vocazione, un accento posto sul fatto che la vocazione sia una scelta da compiere per la vita, certamente da rinnovare ogni giorno, ma comunque che la scelta sia una e che sia per sempre.

Ebbene mi domando se non sia venuto il momento di dare valore anche alle scelte non definitive: a quei tempi della vita che – sebbene non stabili – sono tempi non solo di apprendimento, ma di dono pieno e di vera vocazione, se per vocazione intendiamo la chiamata alla gioia di camminare con il Signore.

È così che l’aver avuto più fidanzati può acquistare senso e valore, perché con ognuno c’è stato un amore pieno, per le possibilità date in quel tempo (in quell’età, in quella condizione).

Così anche il fatto che una persona abbia dedicato ad esempio alcuni anni alla vita religiosa e poi abbia lasciato per orientarsi ad altro non dovrebbe configurarsi come «errore di percorso» o peggio «infedeltà», ma dovrebbe essere riconosciuto per il valore che ha.

Attribuire valore solo a ciò che dura tutta la vita è contrario all’esperienza umana, la depaupera irrimediabilmente e rischia di prestarsi a un travisamento di non poco conto, identificando il messaggio cristiano con la fissità, l’inamovibilità.

Maria Cristina Bartolomei, in un articolo apparso su Servitium (n. 164, marzo-aprile 2006) dice:

 «Ecco, questa è una visione “doverista” (che psicanaliticamente si direbbe superegoica), e anche una visione in fondo conservatrice, che travisa dati centrali dell’annuncio cristiano. In tale annuncio, per sempre e da sempre è l’amore di Dio. Solo l’amore di Dio. Tutto il resto muta, muta sempre, per adeguarsi al rinnovarsi di tale amore, nell’inventare e reinventare sempre nuove forme per incontrare gli esseri umani, la loro vita e storia».

Allora in questa prospettiva di apertura alla novità dello Spirito e al rinnovamento dell’amore di Dio, perché non dare valore anche alle scelte temporanee, ai percorsi non lineari, alle vite che più che autostrade sono sentieri di montagna, con andate, ritorni, salite e discese, ma anche con paesaggi inediti e irripetibili?

Il pensiero delle donne anche sulla vocazione potrebbe portare novità e inediti interessanti.

La scienza e la sapienza. Intervista a mons. Claudio Giuliodori

Con uno sguardo "privilegiato" sui giovani che si stanno per affacciare sul mondo del lavoro, mons. Caludio Goiliodori è assistente ecclesiastico generale dell’Università cattolica del Sacro Cuore. Lo abbiamo intervistato in merito alle questioni antropologiche che oggigiorno segnano più profondamente il vissuto dei giovani.

– Eccellenza, dal 2013 lei è assistente ecclesiastico generale dell’Università cattolica del Sacro Cuore e ha quindi uno sguardo particolare – e in qualche modo «privilegiato» – sui giovani, specie quelli che si stanno per affacciare sul mondo del lavoro e generare il nostro futuro tessuto sociale. Quali sono, a suo avviso, le questioni antropologiche che segnano più profondamente il vissuto dei giovani? E di conseguenza: quali sono gli ambiti in cui ritiene che la riflessione teologica-morale debba investire?

«Un primo elemento può essere colto nella difficoltà che i giovani sperimentano nel vivere in modo unitario e integrale l’esperienza umana. In modo particolare diventa sempre più problematico il rapporto con il corpo, riflesso di una difficoltà nel definire la propria identità personale.

La Chiesa si trova impreparata ad affrontare una simile modificazione della percezione del corpo, dell’affettività e della sessualità e di tutte scelte pratiche e gli stili di vita che ne conseguono all’interno dell’esperienza giovanile. Ma proprio nell’orizzonte del discernimento vocazionale appare fondamentale ritornare a offrire ai giovani una visione armoniosa e gioiosa della corporeità e della sessualità.

Un secondo fattore di criticità sostanziale che intacca il quadro antropologico di fondo è la perdita della dimensione trascendente dell’esistenza.

I giovani, presi nel vortice di un ambiente sempre più mediatizzato e in continua trasformazione, in cui tutto si consuma nell’immediato presente senza estensione né di passato né di futuro, rischiano soprattutto di perdere l’apertura alla dimensione trascendente della vita, che è l’orizzonte entro cui s’iscrive l’esperienza spirituale e la stessa visione di fede.

Ma nonostante la confusione e la dispersione che si registra nel vissuto giovanile, non si può affermare che la secolarizzazione abbia preso il sopravvento. Da analisi più approfondite del rapporto dei giovani con la fede, di carattere qualitativo e non solo quantitativo, si vede che sono venute meno le forme tradizionali della religiosità, ma non è scomparsa la ricerca spirituale, che anzi per certi versi è divenuta più profonda e genuina. Non è tuttavia certamente facile intercettare una domanda di spiritualità così diversa e fluida rispetto al passato.

Un terzo aspetto che è importante evidenziare riguarda il modo di relazionarsi dei giovani con lo scenario sociale e culturale del nostro tempo: vengono evidenziati come snodi critici dell’esperienza giovanile i nuovi processi conoscitivi e di ricerca della verità, le modificazioni apportate a tutti i livelli dalla realtà digitale, la difficoltà a sentirsi parte e a partecipare ai processi sociali e politici, lo smarrimento di fronte alla miriade di modelli e proposte di vita, la speranza e la necessità di andare oltre la secolarizzazione.

In modo particolare vale la pena di registrare che la difficoltà sul piano delle scelte personali e della definizione dell’orizzonte valoriale si ripercuote non solo sul vissuto personale, contrassegnato da varie forme di disagio esistenziale, ma anche sul versante dell’impegno sociale e culturale. I giovani, chiusi nel loro mondo spesso artificioso e dissociato dalla realtà, fanno fatica oggi a sentirsi protagonisti della vita sociale e culturale. Si ritrovano spesso a essere vittime, ma anche artefici della cultura dello scarto».

La questione del linguaggio condiviso

– Ha parlato di scenario culturale e sociale. L’Università cattolica (nelle sue differenti sedi), pur non essendo l’unica realtà accademica in Italia, ricopre un ruolo assai importante nella formazione delle generazioni presenti e future, relativamente agli aspetti emblematici enucleati sopra. Ricordo per inciso ai lettori di Moralia, che tutti gli studenti di tale Università – oltre agli esami del proprio corso di laurea – devono sostenere alcuni esami di teologia. Qual è l’idea di cultura, di società, di fede, di educazione… che tale impostazione implica?

«È necessario, ovviamente con modalità e linguaggi innovativi, mantenere la capacità di costruire visioni d’insieme e mappe concettuali che possano aiutare a superare l’attuale separazione tra teologia e saperi e la stessa frammentazione delle conoscenze scientifiche, sempre più a rischio babele.

Si colloca del resto in tale orizzonte anche il lavoro avviato in questi ultimi anni con la revisione della stessa articolazione tematica dei corsi di teologia che vengono erogati in Università cattolica a tutti gli studenti, un corso per ciascun anno nella triennale mentre per la magistrale si propone un seminario collegato con le materie del corso di laurea. Siamo consapevoli che ritrovare ed elaborare un linguaggio condiviso è una grande impresa. Richiederà molto tempo e il superamento di criticità ben stratificate.

S’intende così rispondere nel miglior modo possibile alle istanze della costituzione apostolica Ex corde Ecclesiae, che chiede di inserire la teologia in modo ampio e significativo nel curriculum formativo degli studenti perché “la teologia – si afferma al n. 19 – svolge un ruolo particolarmente importante nella ricerca di una sintesi del sapere, come anche nel dialogo tra fede e ragione”. Rispetto a queste finalità, l’organicità della proposta formativa in ambito teologico attualmente offerta dal nostro ateneo sembra essere tra le più qualificate e significative anche rispetto a quanto avviene generalmente nelle altre università cattoliche.

L’obiettivo dei nostri lavori è quello di fare un passo avanti nel contesto del rapporto tra teologia e saperi, in particolare sul versante dei linguaggi e dei concetti. Non basta infatti interrogarsi sull’imprescindibile necessità di un reciproco riconoscimento e di un dialogo reale e costruttivo, dimensioni che abbiamo scandagliato sotto diversi profili negli anni scorsi.

Appare fondamentale approfondire la questione del linguaggio, inteso nella sua dimensione fondativa e istitutiva del sapere, come reale possibilità di individuare, a partire dal logos umano-divino originario, una piattaforma concettuale condivisa che consenta, almeno sulle grandi questioni di fondo, di progredire nella costruzione di un sapere aperto, amante della verità, capace di contribuire al bene e allo sviluppo dell’umanità.

Non è più sufficiente accontentarsi di un formale rispetto che lascia ciascun sapere nel suo alveo, favorendo la crescente frammentazione delle conoscenze con il conseguente rischio di ideologizzazioni di singoli aspetti o segmenti del sapere.

Né si può pensare che la teologia – così come la fede rispetto alla ragione – sia più libera e possa trarre giovamento da una separazione che rappresenta una delle cifre caratterizzanti della modernità. I percorsi che si sono sviluppati alla luce di questo processo, al di là di rigide – quanto semplicistiche – posizioni di uno scientismo che ci auguriamo ormai in via di esaurimento, non hanno certo aiutato né le scienze né la teologia».

Dire la scienza con parole di sapienza

– Nei giorni scorsi (10-13 settembre) si è tenuto a Caravaggio l’annuale Seminario di studio dei docenti di teologia e degli assistenti pastorali, dal titolo: «Le parole dei saggi fanno gustare la scienza» (Pr 15,2). Dire la scienza con parole di sapienza». Perché questo titolo e quali gli obiettivi di questo incontro?

«La strada del dialogo su cui stiamo camminando, se da una parte appare ineludibile, dall’altra pone alla teologia e alla ricerca scientifica nuovi e urgenti interrogativi, a cui dobbiamo assieme tentare di rispondere.

Mi sembra questo il senso che assume per noi l’espressione “Dire la scienza con parole di sapienza”, cioè cercare le vie, i linguaggi, i contenuti che anche grazie all’apporto della teologia, consentano alle varie scienze di non perdere di vista la centralità dell’uomo, la sua dignità e responsabilità, le sfide e i compiti epocali che lo interpellano in questo nostro tempo.

Nel discorso rivolto all’Associazione dei teologi italiani, il 29 dicembre scorso, in occasione del 50° di fondazione, il santo padre indicava anche alcune questioni di stringente attualità con cui la teologia assieme alle altre scienze deve misurarsi: “Come quella della crisi ecologica, dello sviluppo delle neuroscienze o delle tecniche che possono modificare l’uomo; come quella delle sempre più grandi disuguaglianze sociali o delle migrazioni di interi popoli; come quella del relativismo teorico ma anche di quello pratico”.

La scienza teologica è sempre stata dalla Chiesa considerata una dimensione imprescindibile per un progetto accademico ed educativo che vuole formare donne e uomini capaci di contribuire con la loro levatura intellettuale, le loro capacità professionali e una spiccata sensibilità spirituale ed etica al bene comune dell’umanità e alla missione della Chiesa.

Cercando e sperimentando con coraggio nuove modalità di dialogo e collaborazione, la teologia – e quindi anche la teologia morale! – non può sottrarsi al compito di essere fermento d’interazione e unificazione tra i vari saperi».

Il futuro della fede Intervista alla sociologa Rita Bichi

Rita Bichi, insieme a Paola Bignardi, è la curatrice di due testi davvero interessanti rispetto al tema di questo nostro «Dialoghi», cioè i giovani. Pochi giorni fa è stato distribuito in libreria il volume: Il futuro della fede nell’educazione dei giovani. La Chiesa di domani. Questa seconda indagine (165 interviste in tutta Italia) nasce dall’esigenza di conoscere meglio l’ispirazione, i temi, le motivazioni degli educatori – genitori, sacerdoti, insegnanti, suore, catechisti, animatori… – che, con un’azione spesso poco conosciuta, contribuiscono a iniziare i giovani al trascendente.

 

Rita Bichi, insieme a Paola Bignardi, è la curatrice di due testi davvero interessanti rispetto al tema di questo nostro «Dialoghi», cioè i giovani. In collaborazione con l’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo hanno pubblicato il volume Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia. Pochi giorni fa è stato poi distribuito in libreria quello che chiamerei la seconda parte del dittico: Il futuro della fede nell’educazione dei giovani. La Chiesa di domani .

Tale doppia ricerca ci permette di prendere ancor più coscienza di quanto sia asimmetrica oggi la relazione tra la comunità cristiana e i giovani. Da un lato, infatti, la comunità ecclesiale continua a offrire soprattutto percorsi di formazione standardizzati basati sull’iniziazione cristiana dei fanciulli, a cui fanno seguito proposte di cammino di fede attraverso oratori, gruppi giovanili e aggregazioni laicali, che intercettano però una parte minoritaria di essi.

I giovani, d’altra parte, sembrano non essere più interessati a quanto propone la comunità ecclesiale e non collegano più in modo diretto la loro esperienza di fede a quanto proposto dalla Chiesa almeno nella sua prassi ordinaria.

Ma ciò non significa che sia scomparso dal loro orizzonte esperienziale il tema della fede. Dalla prima indagine (che coinvolse 150 giovani di tutta Italia) – condotta con un metodo qualitativo in grado di far emergere non solo dati formali, ma il vissuto profondo e complesso dei giovani rispetto alla fede – non erano mancate conferme e sorprese rispetto questa tematica.

La seconda indagine (165 interviste in tutta Italia) nasce dall’esigenza di conoscere meglio l’ispirazione, i temi, le motivazioni degli educatori – genitori, sacerdoti, insegnanti, suore, catechisti, animatori… – che, con un’azione spesso poco conosciuta, contribuiscono a iniziare i giovani al trascendente.

A fuoco il mondo degli educatori

– Dr. Bichi, vorrei soffermarmi sulla seconda ricerca. L’obiettivo non era tanto quello d’indagare che cosa si fa o che cosa non si fa, ma di capire come si percepisce e si vive concretamente oggi il mandato ecclesiale di educare alla fede i giovani. Quale mondo emerge dai racconti degli intervistati?

«Il mondo raccontato da queste donne e da questi uomini, impegnati in un lavoro educativo che pretende un coinvolgimento personale forte, rimanda subito a un intreccio complesso: di visioni di vita, di passioni, di vocazioni, di stili educativi, di abitudini, di pratiche tradizionali o innovative.

Non è semplice riassumere tanta ricchezza e diversità di approcci. Né l’indagine si pone l’obiettivo di tracciare un quadro completo ed esaustivo del tema in oggetto. Si vuole solo offrire, a partire dal vissuto reale, uno sguardo capace di cogliere in profondità le questioni, per suscitare un dibattito franco e aperto, al fine di favorire un confronto tra esperti e operatori pastorali che aiuti tutti a ridare nuovo slancio all’impegno educativo della comunità ecclesiale nei confronti delle nuove generazioni.

Mons. Giuliodori, nella presentazione del libro, così si esprime: “È come se entrassimo nel mondo dell’educazione alla fede dei giovani con un caleidoscopio (dal greco kaleidoskopeo, “vedere in modo bello e affascinante”), che ci mette di fronte a un suggestivo riverbero di luci e di ombre, di colori e di sfumature”.

Risulta evidente la consapevolezza di queste persone circa il fatto che la pastorale giovanile debba fare i conti – se non ha già cominciato a farli – con le grandi trasformazioni sociali e culturali della società contemporanea, ma soprattutto delle nuove generazioni. Si tratta di trasformazioni irreversibili, dicono all’unanimità gli intervistati.

Le sfide che mettono in evidenza sono molteplici e non solo legate alla tecnologia: la prima è certamente quella di far fronte a un’ormai avvenuta, e forse superata, secolarizzazione, alla comunque diffusa disaffezione nei confronti della religione, all’allontanamento dei giovani dalla Chiesa. Ancora: la società italiana è ormai multiculturale e in essa anche le appartenenze religiose convivono».

L'importanza della condivisione  

– Secondo l’esperienza e il parere degli intervistati, c’è ancora domanda di Dio da parte dei giovani?

«Tutti concordano su una risposta positiva, ma con tanti distinguo, tanti aggettivi a qualificare una richiesta non semplice, esplicita, superficiale, scontata.

Vi è uno spostamento su altri fronti di dimensioni valoriali tipiche della religione cattolica e indica una prima dimensione da seguire, quella in cui si riesce a cogliere il desiderio di felicità, porta d’accesso del messaggio cristiano.

La gioia, la felicità, sono parole che ricorrono spesso nei racconti dei catechisti e degli educatori. Anche guardata dal lato della sua mancanza, a partire dal disagio, un malessere che può trovare aiuto nel Vangelo».

– Come sintetizzerebbe le parole, le esperienze, le riflessioni di questi adulti così impegnati e impregnati con i giovani?

«La gioia, il movimento, l’apertura, l’ascolto, il viaggio, la semina, l’esempio, la coerenza: parole chiave in queste interviste, in queste persone. Trovano tanti ostacoli e problemi nella loro opera, a partire dalla peculiarità di generazioni veloci, che mutano presto, che sono diverse da quelle dei fratelli e delle sorelle maggiori.

I ritmi e la complessità della vita quotidiana spesso allontanano giovani ed educatori dalla comunità cristiana, da un percorso da fare insieme. Lo studio, il lavoro, il gruppo dei pari, il disinteresse della famiglia di origine collaborano, nelle opinioni degli intervistati, a un allontanamento che spesso non si sentono di contrastare perché pensano sia utile anche la sospensione, la latenza, pur nell’impegno a esserci, a non mancare a un’eventuale chiamata.

Comprendono che i modi di vivere la fede sono cambiati in maniera irreversibile e chiedono di essere aiutati ad affrontare questo mutamento. La gran parte di loro vive con passione il lavoro con i giovani e cerca strategie e strumenti innovativi per comunicare e testimoniare la propria fede.

Sperimentano pratiche, eventi, occasioni le più varie nelle quali vivere in comunità. Chiedono la condivisione e un maggiore coordinamento territoriale, dove il territorio rimane centrale anche se problematico: la mobilità per studio o per lavoro complica la possibilità di compiere cammini condivisi e duraturi».

 Modelli di relazione a cui ispirarsi

– Nel suo personale contributo in questo libro c’è un paragrafo che ho trovato particolarmente interessante: è quello sui «modelli di relazione», in cui emergono con forza le relazioni di Gesù. Potrebbe raccontarci brevemente questo aspetto della ricerca? Credo che possa dare degli spunti anche alla riflessione e allo stile della ricerca teologico-morale.

«Agli intervistati è stato chiesto di indicare quale incontro di Gesù con le persone nel Vangelo considerano una guida per la propria azione educativa e il tratto che ne vorrebbero riprodurre. Le risposte sono molte, molti i brani di Vangelo portati ad esempio. I più citati però sono quattro: l’incontro di Emmaus, la peccatrice perdonata, la Samaritana e l’incontro con Zaccheo

L’incontro di Emmaus è molto presente nei racconti degli intervistati perché, secondo le loro parole, dotato di una grande forza. Quella dell’accompagnamento, dell’affiancamento senza fretta, della compagnia che illumina un percorso partito da lontano e che porta lontano.

Lo stesso concetto si ritrova nei racconti di chi cita l’episodio della Samaritana, unito all’idea che l’educatore debba essere “promotore di consapevolezza e autonomia”, fornendo “acqua da bere”, ossia strumenti di conoscenza e giudizio. Ancora: la Samaritana è percepita come il simbolo del “diverso”, dello straniero accolto come uguale e, come tale, episodio di grande attualità, che parla direttamente alla contemporaneità multiculturale, segmentata, globale.

La peccatrice è ricordata come episodio nel quale il perdono è incondizionato, così come l’amore. Perdono e accoglienza che sono in grado di cambiare la vita a chi si sente perdonato e accolto. La peccatrice è citata anche come prima “apostola”, rappresentante delle donne che hanno seguito e seguono Gesù. Zaccheo è citato a motivo della sua “piccolezza”».

– In conclusione, quali sono le strade possibili? Qual è «il futuro della fede»?

«Ciò che qualifica l’azione educativa, secondo gli intervistati, è in primo luogo l’ascolto, unito alla presenza costante accanto ai giovani. E poi la concretezza e la testimonianza.

Grande rilievo viene dato alla gioia, primario messaggio cristiano spesso tralasciato, lasciando spesso passare l’idea che esso sia, al contrario, tristezza, dolore, noia. Infine un elemento messo molto in evidenza è il linguaggio: da cambiare, da adattare a quello usato da coloro con i quali si vuole entrare in comunicazione. Il linguaggio del fare, dell’esperienza… che si avvale, ma non per tutti, degli strumenti della comunicazione digitale.

In conclusione: la speranza non manca, anche di fronte alle tante difficoltà, prevale la certezza che si tratti di una semina che porta comunque frutti».

Password: discrezione

Nel tirare le fila di questo «Dialoghi» dedicato ai giovani, ho ripensato anche alla mia esperienza personale, caratterizzata – come per tutti – da momenti di enorme fatica, di fallimento, d’impotenza, di scoraggiamento, ma anche di speranza, di possibilità, di entusiasmi, di condivisione… E ritengo che «discrezione», nella sua accezione positiva, possa essere la parola d’ordine con cui potremmo sia seguire i lavori del Sinodo, sia impostare l’impegno – di riflessione e pratico, sul campo – che ne seguirà.

 

Qualche tempo fa lessi un saggio di Pierre Zaoui, L’arte di scomparire. Vivere con discrezione (link), in cui la «discrezione» è rivisitata in chiave positiva; pur definita anche «sottrazione», non si traduce in una perdita negativa. Al contrario: diventa un’esperienza di arricchimento, in cui si gode della gioia di osservare senza essere osservati, in cui si permette al mondo di esistere e si riconosce che esso ruota anche senza di noi.

«Il piacere baudelairiano di perdersi tra la folla della metropoli; la gioia profonda e silenziosa di osservare, inosservati, il proprio amato mentre dorme o i propri bambini mentre giocano tranquilli; il sollievo di poter placare finalmente l’ansia di mostrarsi. Lontano dalle vetrine sfolgoranti, dal calcolo prudente, dalla paura o dal desiderio di essere notati, l’anima discreta offre al mondo una presenza giusta, misurata» (Introduzione).

Nel tirare le fila di questo «Dialoghi» dedicato ai giovani, ho ripensato anche alla mia esperienza personale, caratterizzata – come per tutti – da momenti di enorme fatica, di fallimento, d’impotenza, di scoraggiamento, ma anche di speranza, di possibilità, di entusiasmi, di condivisione… E ritengo che «discrezione», nella sua accezione positiva, possa essere la parola d’ordine con cui potremmo sia seguire i lavori del Sinodo, sia impostare l’impegno – di riflessione e pratico, sul campo – che ne seguirà.

Non intendo la discrezione come un tratto psicologico del carattere o una semplice questione di compostezza, di riserbo, di «buone maniere», ma come uno stile profondo, di atteggiamento morale e teologico che coinvolge (dovrebbe coinvolgere) integralmente l’essere umano, anche nelle sue relazioni sociali e comunitarie.

La discrezione come «tempo breve»

La prima specificità della discrezione risiede nel suo essere «tempo breve», capace di bastare a sé stesso. Tempo quasi effimero, connotato dalla gioia di essere tale.

Come ricordavo in un post di un anno fa circa, si sente parlare spesso di «genitori spazzaneve», che eliminano dalla strada dei propri figli qualsiasi ostacolo possa presentarsi, di modo che non vivano nessun fallimento e nulla possa incrinare l’autostima.

Mi pare di poter affermare che il Sinodo ci inviti a non essere «Chiesa spazzaneve» nei confronti dei nostri giovani. La nostra relazione con i giovani non deve produrre «pupazzi».

La nostra riflessione teologico-morale e la nostra azione pastorale devono mirare a generare persone capace di assumersi il loro proprio cammino, in libertà, responsabilità e consapevolezza. Ecco quindi che la discrezione come «tempo breve» ci chiede anche la forza e il coraggio – ma anche l’umiltà – di fare ogni tanto un passo indietro, per lasciare quello spazio (che non va occupato, ma preparato) capace di mettere in moto «processi possibili» (cf. Evangelii gaudium, n. 224s).

La discrezione come «sguardo d’insieme»

La discrezione, in quanto capacità di fare un passo indietro, amplia la prospettiva, allargando orizzonti in cui il mondo appare molteplice, decentrato. È quindi la possibilità di mantenere la capacità «di costruire visioni d’insieme», come ci ricordava mons. Giuliodori nella sua intervista, tanto urgenti e tanto necessarie nel nostro contesto frammentato e frenetico.

La discrezione come «rinuncia alla volontà di (onni)potenza»

Il «passo indietro», la discrezione, il passare inosservati, quasi trasparenti, apre a un’esperienza nuova: l’abbandono dei fantasmi di (onni)potenza. Non si è indispensabili, non si è responsabili di tutti e di ciascuno. Piuttosto: si è corresponsabili.

La rinuncia alla «volontà di (onni)potenza» implica che si debba lasciare anche la pretesa d’imporre dei modelli prestabiliti, fissi, «chiari e distinti». Il prof. Garelli ci ha mostrato come la «condizione credente» dei giovani sia assai variegata, fluida, per certi versi «nuova».

E in quanto tale richiede un approccio che sappia tenere conto delle sue caratteristiche e aprire la strada all’ascolto.

La discrezione come «ascolto»

Per non ascoltare, basta non smettere mai di parlare… E la discrezione è quindi anche la capacità di tacere. Tacere per ascoltare realmente i giovani, nel loro vivere gaudium et spes, luctus et angor.

Ma anche per riformulare linguaggi che a loro appaiono vuoti, insignificanti, lontani – dato che è emerso in praticamente tutti i contributi di questo «Dialoghi». Tacere è anche lasciare spazio per «riconoscere la voce dello Spirito, tra le tante che nel mondo si fanno udire, e a decidere di seguirla», come indicava p. Costa.

La discrezione è quindi possibilità per l’esercizio di coscienza. La discrezione come ascolto è, di conseguenza, anche spazio per porre attenzione alle circostanze.

La discrezione come «attenzione alle circostanze»

Così intesa come sin qui elencato, la discrezione è quanto ci consente di rispondere sinceramente alla vocazione. Siamo «chiamati alla (e dalla) realtà», secondo l’espressione e la riflessione della dr. Lazzarini.

Tuttavia non dobbiamo dimenticare che le circostanze, la realtà non investono soltanto i giovani, ma anche noi adulti. In gioco vi è la vocazione di noi tutti, non solo dei giovani.

La discrezione come «amore»

La discrezione, infine, non corrisponde a un «vedere senza essere visti» (non è un pedinamento, che potrebbe celare ancora forme di manipolazione), ma di vedere senza sovrastare, senza togliere la libertà e la responsabilità all’altro. La discrezione potrebbe anche essere quindi intesa come la pazienza dell’amore nei cammini di accompagnamento che ci ha indicato (link) la prof. Bichi e che con forza ci vengono richiesti.

Credo che la discrezione oggi – nella società della sovra-esposizione delle immagini e del presenzialismo sui social – ci possa aiutare a prediligere la profonda identità (personale, comunitaria, ecclesiale…) al posto della visibilità; possa, pertanto, promuovere una predominanza l’essere sull’apparire. E così intesa ci possa aiutare anche a superare forme più o meno velate di individualismo che tutti viviamo.

La discrezione ci aiuterebbe a comprendere che non siamo chiamati a una «trasmissione della fede», quanto piuttosto a una «generazione alla fede»: non si tratta di consegnare una dottrina, ma di suscitare e accompagnare la vita. E in questa «generazione alla fede» siamo allo stesso tempo genitori e figli (ponendo attenzione a non diventare adultescenti o giovanilistici!) con e dei nostri giovani.

Concludo – a nome della redazione di Moralia – ringraziando gli autori che ci hanno offerto il loro contributo e augurando «tempo di discrezione» a coloro che parteciperanno attivamente, a Roma, ai lavori del Sinodo e a tutti coloro che, nelle forme e nei tempi più svariati, condivideranno e questa occasione di confronto, attivandosi per ricucire, rinnovare, implementare l’alleanza intergenerazionale e indicare strade percorribili di corresponsabilità per l’annuncio del Vangelo.

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